sabato 31 dicembre 2011

Cent'anni fa... oggi. L'amore infelice di un diplomatico russo

 
Mentre il governo turco annuncia la crisi e la guerra in Libia attraversa fasi alterne in Tripolitania e Cirenaica,
dall’altra parte del pianeta succedono fatti di gustosa memoria bocaccesca….
 
Da La Stampa del 31 dicembre 1911

Il romanzo d'amore di un vecchio diplomatico russo
Pietroburgo, 30, mattino.
Nei circoli diplomatici di Pechino si parla molto da qualche tempo di un affare che provoca un grave scandalo. 
Ecco come il giornale Ruskoje Selo racconta i fatti: Il ministro russo in Cina signor Korostovtz, che è un uomo sulla sessantina, è oggetto di una denuncia pervenuta ora a Pietroburgo. Querelante è un suo amico, il signor Perrier, francese, direttore generale delle poste cinesi. Costui aveva ed ha ancora una figlia, una signorina veramente graziosa di 16 anni. Il signor Korostovtz non solo aveva notato subito la ragazza ma ne era diventato perdutamente innamorato. Si finse ammalato e chiese un congedo che gli fu accordato; ma non partì da Pochino solo; condusse con sè la signorina Perrier che aveva travestita da ragazza cinese. Cosi potè sfuggire alla curiosità di tutta la colonia estera che si era recata alla stazione a salutare il ministro di Russia. Fu soltanto poche ore dopo che i genitori della signorina Perrier appresero la triste verità. Il disgraziato padre prese un treno speciale e si slanciò dietro i fuggitivi. Aveva prima però telegrafato al console di Tientsin dando i connotati del fuggitivi ma la signorina, grazie al travestimento giunse in tempo a prendere la ferrovia fino a Taku, mentre il signor Korostovtz filava verso Mukden in un treno merci. Il signor Perrier era armato di rivoltella e percorse in tutti i sensi Tientsin; ma le sue ricerche furono sempre vane. Fu soltanto dopo molti passi che finì per trovare sua figlia a Taku proprio al momento in cui stava per prendere il battello per Cefo. Quanto al signor Korostovtz si era nascosto nella casa del Console russo di Mukden e finì per partire per Pietroburgo otto giorni dopo prendendo a pretesto la necessità di farsi operare di appendice. Si assicura a Pechino che la signorina Perrier si trova in uno stato anormale per la sua condizione di ragazza.



E sul dubbio germogliato in noi riguardo l'anormale stato della sfortunata ragazza francese chiudiamo il 2011............

Post Scriptum: Cercando qua e la ho in questi giorni trovato una traccia del buon Korostovetz:
CAZZOLA PIERO. Un diplomatico russo in Mongolia all'alba del XX secolo. Introduzione a Ivan Ja. Korostovetz. Nove mesi in Mongolia. Il diario di un plenipotenziario russo a Urga dall'agosto 1912 al maggio 1913. In: «Slavia» [Roma], 7 (1998), n. 3, p. 166-168. Cercherò prossimamente di capire se si tratta proprio del nostro farfallone..... e in caso postivo, riferirò.......

venerdì 30 dicembre 2011

La vaccinazione antivaiolosa ai tempi di Voltaire

Nell'undicesima delle sue Lettere filosofiche, Voltaire prende posizione a favore della vaccinazione antivaiolosa allora, nella sua pratica sporadica, chiamata  inoculazione. La notizia che in Inghilterra Lady Wortley-Montagu aveva praticato l'inoculo del vaiolo ai figli al ritorno da un soggiorno a Costantinopoli dove suo marito era ambasciatore, aveva creato in Francia grande scalpore. La regina Anna a sua volta, dopo una prudente prova su quattro condannati al patibolo, aveva seguito l'esempio dando inizio alla prevenzione della malattia almeno nell'alta aristocrazia del paese. Voltaire dunque si chiede: se un tale provvedimento fosse stato attuato in Francia non si sarebbero  risparmiate tante illustri vite? E cita il Duca di Villequier, morto nel fiore degli anni, il principe di Soubise morto a 25 anni, il nonno di Luigi XV assieme ad altre ventimila persone decedute a Parigi nell'epidemia del 1723. "Come! -esclama- I francesi non amano la vita? Le loro donne non si preoccupano della loro bellezza (il vaiolo lascia in chi sopravvive, segni indelebili sulla pelle soprattutto sul viso...)?" All'inizio della lettera Voltaire ricorda le origini di questa pratica inoculativa. Le madri circasse- scrive - hanno in gran conto  la salute delle loro figlie per due motivi principali: l'amore in sè e l'interesse. Quest'ultimo deriva dal fatto che essendo il popolo circasso abitualmente molto povero, trova un valido motivo di sussitenza nell'allevare al meglio la prole femminile. Le giovani fanciulle infatti, educate con sapienza negli anni alle arti della lascivia, costituiscono una preziosa fonte di guadagno allorchè vengono vendute agli harem persiani e turchi. E' immaginabile la rovina che deriva dalla morte o dal deturpamento estetico, spesso per malattie come il vaiolo, di un bene così prezioso. La tradizione circassa ha da tempo immemorabile introdotto l'inoculazione del vaiolo negli infanti anche molto piccoli, addirittura di 6 mesi (sottolinea Voltaire) per prevenire la terribile malattia. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti: nessuna fanciulla così trattata sviluppa la malattia. Molto cinicamente il nostro filosofo conclude che un popolo da sempre dedito al commercio (i Circassi) ben salvaguarda il proprio interesse e nulla risparmia per ottenere ciò che abbisogna al commercio stesso. Negli anni, questo primo rudimento della vaccinazione che solo a fine 700 troverà regole precise, fu adottata dai Turchi, popolo "sensato". Alla fine della lettera Voltaire cita ancora i Cinesi da cent'anni anche loro dediti alla vaccinazione pur in modo differente. In Cina non si pratica l'inoculo ma si fa inspirare attraverso il naso la polvere essicata ottenuta da pustole infette.
Dunque la lungimiranza di Voltaire aveva visto giusto al di là delle rivalità e delle inutili polemiche tra nazioni. Trionfo dell'intelligenza e dell'età dei Lumi.... 

mercoledì 28 dicembre 2011

La Tv della mia infanzia. Ivanohe, Bonanza e Supercar

IVANHOE


Chi non ricorda, bambino negli anni 60 il faccione sorridente di Roger Moore che con questa serie di telefilm emerge dal nulla per intraprendere la sua brillante carriera.... La serie fu girata quasi interamente in bianco e nero a parte la puntata pilota. L'ambientazione era povera ma le avventure ben congeniate e ben recitate. Da queste storie ho ricavato l'immagine mitica di un medioevo in cui i cavalieri erano quasi sempre occupati a litigare e combattere, rivestiti da corazze simili quelle dei palombari ma soprattutto che il mondo si divideva tra buoni e cattivi e che la scelta di campo era obbligatoriamente a favore dei primi. 


BONANZA


Agli inizi la serie è diretta da Robert Altman. Ci sono tantissimi personaggi a cominciare dai 4 Cartwright che si esibiscono in galoppate sfrenate e pistolettate furiose, attraverso fattorie e praterie. Ogni storia è ben costruita tanto che la serie è una delle più longeve della storia TV. I Cartwright, chi prima chi dopo, se ne sono andati tutti, ultimo Pernell Roberts , l'Adam della serie morto nel gennaio 2010 a 81 anni. E' singolare il fatto che tre dei protagonisti morirono per tumore, al pancreas Michel Landon e Pernell Roberts, alla prostata Lorne Green.  Dan Blocker (Orso nella serie) per complicazioni durante un intervento alla colecisti.

SUPERCAR


Il viso di Mike Mercury mentre parla in fase di decollo guardando la telecamera è il ricordo più nitido che ancora conservo della serie televisiva andata in onda nei primi anni 60. Scenografia molto ben curata anche se essenziale, i pupazzi muovevano la bocca (mandibola straordinariamente mobile...) in sincrono con il doppiaggio. Da ricordare anche le folte sopracciglia di Mike e il suo mento volitivo.

lunedì 26 dicembre 2011

Juve-Toro:4 a 3: 27 ottobre 1958

Quel giorno fui accompagnato allo stadio da un amico di mia sorella. Si chiamava Alfredo e abitava anche lui sul corso nella casa di fianco alla nostra. Venne a prendermi nel primo pomeriggio, saltai giù in strada dalla finestra del piano terreno eccitato e intimorito. Era la mia prima partita allo stadio e per di più era il derby... Fui introdotto sulle gradinate della curva passando nascosto sotto il lungo cappotto in loden di Alfredo. La ressa ai cancelli era indescrivibile e non ebbi neanche il tempo di avere paura per il sotterfugio. La partita finì con la sconfitta del Torino che era la mia squadra del cuore. Ma la novità e la felicità di essere stato in quell'immenso catino strabordante di folla urlante mi accompagnò per anni, anche quando di li a poco cominciai a disinteressarmi del calcio e delle sue vicende.


STAMPA SERA Lunedi 27 Martedì 28 Ottobre 1958 Anno XII - Numero 255

Emozionante vittoria della Juventus sul Torino Incontro superiore a tutte le aspettative Cinquantamila spettatori per un magnifico «derby»

Una partita superiore a tutte le aspettative, in quasi ogni senso del termine: come spirito combattivo e come senso agonistico, come quantità di reti sognate, come spettacolo in sé, perfin come quantità di spettatori accorsi al richiamo. Solo in quanto a qualità intrinseca tecnica del giuoco, l'avvenimento non ha raggiunto la levatura che si sarebbe desiderato, ma la cosa è comprensibile: considerato il momento in cui viviamo, non bisogna chiedere troppo, occorre accontentarsi di quello che si ha. Il quadro dell'ambiente innanzi tutto. V'erano, grosso modo, cinquantamila persone sul campo. Recinto quasi completo. Il che, per una giornata, di sciopero dei mezzi di trasporto urbani, costituisce una grossa cifra: una cifra che depone a favore della popolarità del giuoco. Stendardi dei colori delle due parti in causa sugli spalti, entusiasmo, che laggiù, su una delle curve superò ad un dato punto i limiti del lecito, dando luogo ad un pugilato che ruppe i connotati a qualcuno. Questo... inconveniente a parte, una cornice da grande avvenimento. Lato spettacolare. Erano in molti quelli che ritenevano di dover assistere ad un monologo: un monologo recitato dalla parte in causa che sta più in alto, mentre l'altra avrebbe subito la lesione in tono umile e compunto. Quest'altra parte invece, non appena si avvide che, nelle circostanze, esisteva la possibilità di dire una parola sua, alzò la testa, sfoderò una combattività di cui nessuno sospettava la capacità, risalì ripetutamente lo svantaggio che la separava dall'avversario e terminò sfiorando il pareggio. E la lotta, che non ci doveva essere, ci fu, e gli scambi assunsero ad un determinato momento, particolarmente nel secondo tempo di mano in mano che ci si avvicinava alla fine, quel tono di incertezza che piace al pubblico, perché, dando adito a tutte le possibilità, fa trattenere il respiro nei riguardi dell'esito finale. Il numero delle reti. Elevato. Sette: quattro per chi ha vinto, tre per chi ha perso. Anche questo piace al pubblico che paga: i molti palloni in rete rappresentano come il raggiungimento del traguardo per cui si va in campo. Sette reti, comunque, sono molte, e non depongono mai troppo a favore delle difese che, da una parte o dall'altra, le hanno subite. Effettivamente nella maggioranza di esse, se non proprio nella totalità, un elemento di errore di qualcuno dei difensori, di qua o di là, esistette ed ebbe un valore determinante. Nella prima, quella che, a favore dei bianconeri, aprì la lunga serie, il portiere dei granata si fece cogliere qualche metro davanti alla linea della sua porta da un pallonetto deviato dalla testa da Sivori, che, nella sua traiettoria discendente, lo scavalcò alle spalle. Il secondo successo dei granata fu addirittura una autorete juventino, che la palla, proveniente da un forte tiro di Virgili, picchiò nelle gambe del terzino Boldi e schizzò irresistibilmente oltre la linea della porta. E, per l'ultimo punto della giornata, quello che portò il risultato al quattro a tre, il forte tiro trasversale e da lontano eseguito da Mazzero, trovò Mattrel fermo, sorpreso ed incantato, come legato stranamente al terreno. In ogni rete che si segna in un incontro, il principio di un errore, da parte di chi dovrebbe impedirlo, teoricamente esiste sempre. Altrimenti, se esistesse veramente quella perfezione di cui così sovente ed abusivamente si parla, di palloni che battono un portiere non se ne vedrebbero mai. Questa volta gli errori degli uomini chiamati da una parte e dall'altra a difendere, sono stati più vistosi e marchiani, ecco tutto. Il migliore dei sette tiri che hanno dato corpo al risultato, è stato quello partito nel secondo tempo, dal piede di Nicolè, ma anche qui il portiere già stava uscendo e nessuno degli altri difensori intervenne a bloccare la via al juventino che dalla sinistra stava convergendo verso il centro. La. prova tecnica. Non è stata grande, né da una parte né dall'altra. Esserlo proprio non poteva, dati i precedenti. L'una squadra proveniva da Roma, dove tutta una serie di infortuni l'aveva messa a terra. Possiede riserve a sufficienza per turare parecchie e svariate falle, l'undici juventino. Ma la sua formazione standard, diciamo cosi, è una: quella che non era in campo nell'occasione. Non lo si vede mai meglio di quando, come ieri, bisogna ricorrere a sostituzioni di qua e di là. Ieri, essa fornì una prova che ha messo in mostra dei pregi assieme a dei difetti. Il suo periodo migliore lo lui avuto nel primo tempo: quello nel corso del quale ha raccolto molto di meno di quanto la sua manovra avrebbe dovuto e forse potuto raccogliere. Ha ceduto, un po' come sbandata e spaurita per quanto poteva ancora succedere, verso il termine della gara. Ha messo in luce un Boniperti dalla massa grande e dalla qualità bella del lavoro, un Sivori che ha sfoderato impegno e volenterosità, un Nicole che ha detto in termini chiari a tutti quanti che, in quella determinata posizione che è quella del centravanti, possiede qualità in pieno periodo di sviluppo. Il valore tecnico individuale dei giuocatori in maglia bianconera si è dimostrato in genere superiore alla prova tattica fatta collettivamente dalla squadra. I precedenti immediati dell'undici del Talmone-Torino erano poco meno che disastrosi. Dalla prova, fatta otto giorni or sono contro la Triestina, a quella sostenuta in questa occasione contro la Juventus, v'è tutto un balzo verso l'alto. La . squadra ha lottato, prima di tutto con abnegazione, proprio quella qualità che pareva, ultimamente, che le venisse a mancare. Ritrovò il coraggio, non appena si accorse che la giornata le poteva anche riservare delle possibilità. Ed ha saputo trasformare in una affermazione morale che non può mancare di farle del bene per l'avvenire, una prova che poteva benissimo avere il carattere di un crollo definitivo. Qualche uomo suo, come Bonifaci fra gli anziani, come Cancian fra i giovani, è emerso per la qualità oltreché per la quantità del lavoro prodotto. Di giuoco d'assieme, poco, anche o specialmente per i granata, che hanno tenuto in prima linea per la massima parte del tempo, due o tre uomini soli. Di più, dalla compagine non era possibile di attendersi in questo momento. Essa è uscita da quello che è pur sempre uno dei grandi collaudi della stagione, in modo migliore e più incoraggiante di quanto ognuno credeva. Ha trovato una strada sulla quale può e dovrebbe progredire il merito per ultimo. Il risultato è giusto. Avrebbe sorpreso il mondo sportivo, se esso fosse stato differente. Intendiamo parlare della vittoria in sé, non delle sue proporzioni. La Juventus ha indubbiamente migliori mezzi del Talmone-Torino, anche quest'anno. Essa è andata in vantaggio in inizio di partita: poi se lo è visto assottigliare, ma scomparire dalle mani mai. Se nel primo tempo avesse cincischiato meno e mirato senz'altro al largo puntéggio, non avrebbe forse corso il rischio che ha corso verso il termine. Ha vinto la squadra migliore: è uno degli aspetti favorevoli della prima partita stracittadina della stagione. Vittorio Pozzo

Tra i bianconeri ed i granata corsa ad inseguimento (4 a 3) Sivori al sesto minuto ha iniziato la serie dei goals
Nicolé, giovane grande protagonista del derby calcistico torinese, si presenta al primo minuto. Rapido scambio con Colombo, pronta corsa per smarcarsi e ricevere il passaggio: ecco il pallone che arriva. Il diciottenne sostituto di Charles tira fortissimo. A lato di poco. Dietro la torre di Maratona saettano ogni tanto, nel cielo azzurro e luminoso, le scie dei fuochi d'artificio, fatti partire da un moderno tiro a segno accampato in piazza d'armi. Sembrano quasi il simbolo della gara vivace, scoppiettante, imprevedibile nell'andamento. Difatti poco dopo la prodezza iniziale di Nicolé, Arce calcia di precisione nell'angolo alto della porta di Mattrel. Il difensore bianconero blocca. Botta e risposta tra due avversari che si studiano. Al 6' la Juventus piazza l'affondo. Muccinelli, lanciato da Fuin, dimentica il raffreddore che lo intorpidisce, parte in volata lungo la linea laterale e centra. Ganzer riesce appena a sfiorare la palla, Sivori, di testa, la colpisce con un movimento preciso e buffo nello stesso tempo, Sivori è un asso ed è anche divertente, Vieri, uscito male è preso in contropiede. La Juventus ha già firmato con un goal la sua superiorità. Virgili tenta di reagire con una puntata improvvisa, ma Mattrel non è ancora entrato nell'atmosfera del derby (vi entrerà più tardi e risulterà eccezionalmente emozionato). Questa volta para con disinvoltura. Al 20' uno spiovente perfetto di Sivori sta per battere il portiere Vieri, ma Tarabbia, retrocesso sulla linea bianca, devia di testa. La. Juventus controlla l'incontro. E’ il suo momento. Nicolé ha due occasioni da goal: le intuisce con intelligenza, precipitandosi nel corridoio apertosi tra i difensori avversari, ma poi calcia alto. Virgili risponde impegnando Mattrel. Nicolé-Virgili. Prende risalto il confronto tra due centravanti, uno giovanissimo che si affaccia di prepotenza alla ribalta del torneo; l'altro appena ventitreenne, eppure già volto all'indietro a ricordare, forse con nostalgia, il periodo d'oro in cui i tifosi dicevano: Virgili sarà forse il Nordahl italiano. I bianconeri, per ora, non pensano a paragonare il loro Nicolé a Charles. Si accontentano di sottolinearne i progressi o di osservare come il ragazzo abbia imparato dall'attaccante gallese a muoversi, a scartare l'avversarlo, a colpire di testa in un determinato modo. E' ancora Nicolé, con Boniperti e Sivori ad intessere la trama del secondo goal, ma è Stacchini a segnarlo. L'ala sinistra, servita con precisione, evita Tarabbia, e scaglia il pallone in rete. Due a zero. Ma l'incontro è tutt'altro che deciso. I granata sembrano un ciclista impegnato in un duro inseguimento. La Juventus a tratti fa venire in mente un Rivière che dopo aver raggiunto un buon vantaggio in pista sosti ai prendere un caffè... Mentre sta per scoccare il tempo, Ferrarlo sfiora il pallone con la mano. Arce tira la punizione. Mattrel non blocca. Sulla sfera si avventa Virgili: goal. La squadra bianconera deve ripartire quasi da capo, perché una rete di vantaggio è poco, dato l'andamento del gioco. Nicolé, al 2', riporta le distanze ad un margine più favorevole ai campioni. Su centro di Stacchini, il giovane attaccante si districa tra due avversari, poi calcia dal limite dell'area. Vieri non può opporsi e la Juventus va sul 3-1. La corsa ad inseguimento non per questo è finita. Corradi, per eccesso di sicurezza, vuole scartare con eleganza Virgili. Finisce Invece per lasciarsi anticipare. Il centravanti granata, fulmineo, spara verso il bersaglio. Poiché certe azioni hanno il destino segnato, la palla schizza sul montante, rimbalza sulle gambe dell'accorrente Boldi e fila oltre la linea bianca, alle spalle di Mattrel. Così al terzino sinistro bianconero viene assegnato un autogoal che, se mal, dovrebbe venire addebitato a Corradi (ma soprattutto alla prontezza di Virgili nello sfruttare l’occasione). Per ritornare a due lunghezze di vantaggio i campioni impiegano sei minuti. Al 17' Stacchini traversa da sinistra a destra in direzione di Nicolé smarcato. Il centravanti tira sul montante e Sivori riprende e mette a segno. Le squadre appaiono ora un po' stanche ma il Torino lotta con stupendo slancio agonistico. Mazzero, arretrato, lavora molto, Piaceri e Virgili sono minacciosi. Armano corre in difesa e all'attacco. Arce infine si accorge che Mattrel soffre il sole negli occhi e cerca il goal da distante. Un suo tiro finisce a lato, un altro viene fermato in due tempi. Si fa avanti allora, Mazzero, finito occasionalmente all'ala destra. Dall'angolo estremo dell'area egli fa partire un pallone colpito di striscio (con lo zombo dicono i ragazzini che giocano al calcio suì prati della periferia). La palla ruota velocemente, passa lontano dalle mani di Mattrel poi piega a destra e si adagia in rete. La serie dei goal questa volta è davvero finita. La difesa della Juventus, con maggior o minor sicurezza, si salva in un paio di occasioni, e Stacchini porta in area granata l'ultimo attacco di alleggerimento. Il derby termina sul 4-3. Un punteggio insolito. Un punteggio, in definitiva, prezioso per la Juventus che può rimanere alle calcagna della Fiorentina, pur essendo scesa in campo senza Garzena, Emoli, Montico e Charles, Un punteggio che, nello stesso tempo, riesce incoraggiante per il Torino. I granata, con sei giovani in squadra, temevano il crollo. Invece contro i campioni non hanno sfigurato Paolo Bertoldi

La più bella partita del giovane Nicolè

Favorita da una stupenda giornata di sole, gran folla si è recata allo stadio. C'era lo sciopero dei tram, ma l'afflusso degli sportivi al campo di calcio è stato egualmente notevole. Circa 50 mila persone hanno preso posto nelle tribune e sulle gradinate. Di tanto in tanto, sul fitto brusio della massa in attesa, si levava un suono acuto di clacson. Due note sole, chiarissime, rimbombavano sull'anfiteatro e facevano azzittire tutti quanti, Era l'ultima trovata di un gruppo di appassionati. Una batterla d'automobile collegata con due trombe per autovettura. Il tutto racchiuso In elegante cofanetto di legno. L'apparecchio ha funzionato (a tratti, naturalmente) per sottolineare le azioni di attacco del Talmone-Torino. Ha fatto squillare la sua voce, altissima, tre volte: una per ogni rete granata. Poi, a gara ultimata, ha salutato l'uscita dal campo dei giocatori delle due compagini rivali. Visita agli spogliatoi. In quello granata c'è un'atmosfera tranquilla, quasi serena. I ragazzi di Allasio sanno di aver compiuto il loro dovere. Hanno tenuto testa alla squadra Campione d'Italia; senza ricorrere a mezzi poco ortodossi hanno mantenuto in equilibrio Instabile le sorti della contesa fino allo scadere dei 90' Bearzot non vuole accettare i complimenti che gli vengono rivolti per la sua tenacissima partita. «Dovevo tenere Sivori, dice il mediano granata, ed in coscienza mi pare di aver assolto il mio lavoro. Tuttavia Omar è riuscito a segnare due volte. Credo però sia più merito suo che demerito mio, Ganzer commenta con poche parole. «Avrebbero potuto imporsi i bianconeri con uno scarto maggiore ma, a nostra volta, avremmo anche potuto raggiungere il pareggio. Penso che il pubblico non si sia annoiato, stavolta. E nessuno ci accuserà di non esserci prodigati. «Il suo parere su Nicolé?». «L'ho già espresso alla vigilia dell'incontro. Il ragazzo ha confermato le mie parole con i fatti. Ha condotto una gara autoritaria, disinvolta. Si è mostrato sicuro, possente, calmissimo. E ripeto, è un grande giocatore. Virgili ha messo a segno la sua seconda rete in maglia granata. E' soddisfatto della sua partita. Quando si accinge ad uscire dallo spogliatoio è preso d'assalto da un centinaio di sostenitori. Qualcuno vuole portarlo in trionfo. L'ex fiorentino si schermisce e mormora a bassa voce: «Strano mondo quello del calcio: domenica scorsa mi fischiavano, oggi esagerano addirittura negli applausi». Armano non si smentisce. E' il filosofo della compagnia. Si, forse abbiamo disputato un bell'incontro. Ma, francamente, avrei preferito un pareggio ed un gioco peggiore. La gente dimentica quello che ha visto sul campo poco tempo prima e tiene d'occhio solo la classifica. Il bel gioco passa e va, i punti restano». Il presidente della Juventus Umberto Agnelli, giunto all'ultimo momento a Torino, è abbastanza contento dell'esito della partita. «Abbiamo vinto ancora un altro derby e questo conta». Tutti si congratulano con Nicolé. Sono felice, riesce a dire il giovane padovano, è stata forse la mia partita più bella. Sono davvero tanto, tanto felice. Al 124° confronto Juventus-Torino ha assistito Biancone, osservatore speciale della F.I.G.C. Ecco le sue impressioni sul match. Una gara come era logico attendersi. Emozionante, incerta, strana. Come tutti i derby che si giocano nel mondo. Ho avuto un'inattesa, piacevolissima sorpresa: quella che mi ha fornito Nicolé. Il centroavanti juventino mi è parso in grandissima forma, completo sotto ogni aspetto. E' stato veramente bravo. Queste stesse cose Biancone le ha probabilmente ripetute a Gipo Viani e a Pino Mocchetti, quando i due tecnici azzurri sono arrivati in serata a Torino. Viani era reduce da Genova, dove aveva assistito a Sampdoria Fiorentina; Mocchetti, arrivava da Milano dopo aver visionato Inter Roma. I tre selezionatori si sono incontrati in un grande albergo nei pressi di Porta Nuova, ed hanno immediatamente avuto un lungo colloquio. Intervistati dopo cena hanno risposto così: «Novità in vista per la gara di Parigi?». « Pobabilmente, è Viani che parla, ma fino a domani non se ne potrà accennare». «Gli atleti osservati a Genova, signor Viani, si sono comportati secondo le sue previsioni?» «Direi che taluni sono andati al di là delle mie speranze». «Dopo quanto le avrà riferito il comm. Biancone, ritiene possibile l'inclusione di Nicolé nella formazione per Parigi? » «E' ancora presto per affermarlo. «Lo smentisce, allora?» «No». g. bar.


JUVENTUS: Mattrel; Corradi, Boldi; Fuin, Ferrario, Colombo; Muccinelli, Boniperti, Nicolé, Sivori, Stacchini.
TAL.MONE TORINO: Vieri; Tarabbia, Cancian; Bearzot, Ganzer, Bonifaci; Piaceri, Armano, Virgili, Arce. Mazzero.
Arbitro: Orlandini di Roma. Spettatori 60 mila.
Reti: Sivori (J.) al 6'. Stacchini (J.) 39', Virgili (T.) 45' del primo tempo; Nicole (J.) 2", Boldi (J.) autogoal 11', Sivori (J.) 17’, Mazzero (T.) 27'.

sabato 24 dicembre 2011

Cronaca cittadina de La Stampa. I Bagni pubblici di Borgo San Paolo

La Stampa - 22.10.1932 - numero 252 - pagina 7
L’inaugurazione dei bagni pubblici in Borgo S. Paolo. 
L'operoso sobborgo di S. Paolo si è arricchito con l'anno decimo di una nuova opera pubblica, della quale
era viva e sentita la necessità fra quella numerosa popolazione. Per cura del Comune in via Luserna sono stati disposti un reparto di bagni popolari ed un ampio lavatoio pubblico, sufficiente per le necessità della zona. Per l'inaugurazione, fissata a questa mattina, erano presenti il Podestà dott. Paolo Thaon di Revel, i vice-podestà prof. Silvestri e il dott. Gianolio, il segretario generale comm. avv. Gay, il Fiduciario del Gruppo Rionale Fascista ing. Solina, il consultore municipale cav. Massa, rappresentanti della Magistratura, dell'autorità militare ecc.; l'ing. Bonardi del servizio tecnico municipale e il prof. Montalenti progettista dell'edificio. Le Autorità hanno visitato la vasta costruzione ammirando la compiutezza e la perfezione tecnica degli impianti. L'edificio è a due piani fuori terra, sopraelevato a tre piani nella parte centrale per far luogo agli alloggi dei custodi. A pianterreno vi sono due sezioni di lavatoi di 20 posti ciascuna, ad acqua corrente, con vasca di lavaggio ed altra di riasciacquo. Pure a pianterreno sono i depositi per biancheria. Nei sotterraneo sono allogate le caldaie e relativi bollitori capaci di erogare 9000 litri orari di acqua a 90 gradi per i bagni e per il lavatoio. Al primo piano sono i bagni e le docce per uomini e donne e precisamente 12 cabine per bagni e 30 cabine per docce, costituite da celle in marmo, fornite di apparecchi di miscela, vasche da bagno in acciaio smaltato e pediluvi, lavabi ecc. Allo stesso piano si trovano le sale d'aspetto e la biglietteria.


Cronaca cittadina de La Stampa. Le Savojarde

LA STAMPA 7 APRILE 1925 (numero 63 pagina 6)
CRONACA CITTADINA
Le Savojarde
Savoiarda si dice, per scherzo, nel nostro dialetto di una donna grassa, polputa e tarchiata, meglio se zitellona,
ma serve altresì per indicare la lavandaia che netta col sapone le calzette di seta, le stoffe di colore, i tessuti delicati, che nel bucato soffrirebbero. Savoiarda? Perché vi è chi pensa che la denominazione sia in stretto rapporto col mestiere e col particolare modo di lavare i panni e le sostanze usato per la lavatura, e cioè una derivazione della parola sapone, ma tutto fa credere che questo tipo di lavandaia di casa (lavandaia urbana specializzata, più delicata e scrupolosa dell'altra, che per fare la biancheria pulita si serve di tutto, anche dell'acqua e del sapone), sia stata distinta col titolo di «savoiarda» perchè dalla Savoia è venuto a Torino il tipo esemplare. Su per giù come per gli spazzacamino che provenendo in gran pare dalle Valli di Aosta e della Savoia, per molto tempo si chiamarono tra noi i «piccoli savoiardi». Qualunque sia la derivazione dell'appellativo di fatto non ha importanza nel caso che rende il motivo di attualità. Se delle Savoiarde oggi si parla e la loro esistenza affiora sulla cronaca cittadina, è perchè un gruppo di esse, che aveva la sua sede in una delle piazze centrali della città, è stato sloggiato. Deliberata dal Comune la creazione di un nuovo locale per il Liceo Musicale, prescelta come sede l'area del Mercato coperto di piazza Bodoni, iniziate le demolizioni, le «savoiarde» che frequentavano 11 lavatoio ivi esistente si sono trovate d'improvviso senza sapere dove trovare quel tanto di acqua calda e fredda che occorre per il disbrigo del loro mestiere, li si sono fatte vive. Hanno compilato dei memoriali, presentate delle petizioni, avanzate delle richieste, come qualsiasi altra classe organizzata. Nelle loro argomentazioni però sono state così persuasive che il Comune sta già pensando a sistemarle. Cacciate da piazza Bodoni per necessità edilizia troveranno in Vanchiglia un locale migliore. Non sarà la soluzione ideale per le interessate, perchè le savoiarde per prendere e riconsegnare i panni della strada ne devono già fare parecchia, e farne dell'altra con la biancheria bagnata non è comodo, ma il Municipio non poteva rinunciare al progetto di costruire in piazza Bodoni il suo nuovo Liceo solo perchè sotto il mercato, ormai abbandonato, si trovava il lavatoio, ancora in attività. Avrebbe questo si, risparmiato la deviazione del canale, che invece si è resa necessaria per poter gettare le fondamenta del nuovo palazzo ma non avrebbe avuto il nuovo Liceo! Le Savoiarde? Quante saranno? Fisicamente si distinguono da ogni altra specie di lavandaia. Il carico che di abitudine portano sulle spalle dà ad esse delle linee facilmente riconoscibili. Poverette! Vivono nelle soffitte, lavorano nel chiuso e nell'umidità e non hanno le spalle forti, le braccia robuste, le facce prosperose delle lavandaie del contado. Guadagnare guadagnano, ma la loro vita è così tormentata che sembrano tutte vivere di stenti. Quante sono? Un calcolo approssimativo lo si può fare guardando al numero dei lavatoi pubblici e ai pesti che in essi sono disponibili (un tempo le « savoiarde » si vedevano anche sulle rive del Po, ma, presentemente, se non sono scomparse del tutto, se ne trovano pochissime: costrette a stare nel bagnato badano ad evitare il freddo) ma è un calcolo molto approssimativo perchè è mestiere che può tarsi benissimo anche in casa, nella zona periferica. I lavatoi sono una diecina, e poichè ogni lavatoio ha circa quaranta posti disponibili, e non 6ono sempre occupati dalle stesse persone, si può ritenere che le « savoiarde » devono essere nella nostra città poco meno di un migliaio. Il nostro Comune ha due tipi di lavatoi: uno a posti individuali, l'altro a vasche collettiva Rappresentano il vecchio e il nuovo sistema, ma poiché le « savoiarde » sono persone che amano restare nella tradizione, al nuovo preferiscono il vecchio tipo. E ciò a motivo che col vecchio sistema le lavandaie mettono, tutto in società, mentre col nuovo ognuna è costretta a pensare ai casi suoi. L'igiene consiglia il sistema nuovo. Anche se si tratta di panni sudici e che stanno per essere lavati, meglio evitare la confusione. L'acqua, anche se a getto continuo, com'è nelle vasche comuni, non giunge in tutti i punti nello stesso tempo e ugualmente pulita. Dove vi è lo scarico, si aduna l'untume, la sporcizia e la schiuma del sapone I panni lavati presso lo scarico non possono uscire puliti. Nei lavatoi a posti individuali questo inconveniente è evitato, e quando la biancheria è pulita, è pulita veramente. Tutti i lavatoi municipali, che si trovano presso i bagni pubblici, sono a posti individuali. Gli altri, (compresi i due liberi della Barriera di Nizza, che non sono altro che specie di tettoie), sono a vasca comune. A posti individuali sono quelli di Borgo San Secondo, Crocetta, piazza Donatello, via Bologna, Cavoretto San Donato; a vasca comune quelli di via Nizza, via Fiocchetto, Borgata Monto Rosa e quello ora demolito di piazza Bodoni. Per avere diritto ad occupare un posto nei lavatoi, tenerlo occupato per una mezza giornata, le «savoiarde» pagano, sia nel vecchio come nel nuovo tipo, quaranta centesimi. Ogni secchio di acqua calda, di cui possono avere bisogno, costa loro venti centesimi. La spesa non è molto con i tempi che corrono e le comodità non sono poche. Acqua calda ce n'è sempre, l'acqua fredda è continua ed è potabile, il personale è a disposizione da quando fa giorno sino a quando viene la sera, il Municipio spende ogni anno per i lavatoi pubblici più di 200 mila lire e poiché non ne incassa, tra posteggi e acqua calda, che centomila, ogni anno per questo servizio segna a bilancio una passività che è pari all'entrata. A soddisfare la curiosità degli amanti delle statistiche, aggiungiamo che delle centomila lire che vengono percepite, sessantamila rappresentano il provento dell'acqua calda distribuita, le altre quarantamila il posteggio. Dobbiamo queste indicazioni al solerte capo dell'Economato Municipale, cav. Mottura. E da lui abbiamo anche altre notizie curiose. I lavatoi municipali sono aperti alle «savoiarde» tutti i giorni esclusi i festivi. Tutti i posti sono invariabilmente occupati, la ressa però è più forte il mercoledì e ciò non a motivo che tale giorno sia prediletto dalle «savoiarde», ma perchè il mercoledì non si pagano tasse di posteggio: i lavatoi sono a disposizione «gratis» di chi prima occupa i posti. E’ una concessione che viene fatta alle famiglie povere, alle madri di famiglia che non hanno paura della fatica. E a onor del vero il numero delle donne che si presentano, è sempre superiore alla capacita dei lavatoi. E vi è la ressa e si fa la coda, come nei teatri nelle sere di grande richiamo. Il posto è gratis ma l’acqua calda si paga. Anche per evitare lo spreco. Un tempo prima della guerra, anziché un solo giorno gratuito, ce ne erano tre. Per far dell’economia fu fatta una riduzione. Inutile dire che il Municipio farebbe ben volentieri il sacrificio e sopporterebbe il maggior onere, la necessità se ne appalesasse. Ma la tassa di quaranta centesimi, che devono pagare per veder la casa pulita e indossare la biancheria pulita, tutti la pagano volentieri.

venerdì 23 dicembre 2011

Cronaca cittadina de La Stampa. Torino. Morte nella fogna

La Stampa 11.7.1951

UN GIOVANE DI 18 ANNI SCOMPARSO NELLE FOGNE DI VIA CRISTOFORO COLOMBO
Una angosciosa, allucinante sciagura è accaduta ieri pomeriggio nella nostra città.

Un giovane operaio, un ragazzo di 18 anni, è scomparso in una fogna, dopo aver perso i sensi in seguito ad intossicazione. Per quante ricerche siano state affannosamente compiute dai vigili del fuoco, ancora non è stato possibile ritrovarlo. Ma ecco i fatti nella loro cruda realtà. Ieri pomeriggio verso le 15 tre giovani, Aldo Rosano di 19 anni abitante a San Biagio di Centallo, Giovanni Peracchione di 18 abitante a Lanzo in via delle Tettoie 7, e Carlo Bertolina di 16 anni, da Borgo Revel, stavano lavorando in via Cristoforo Colombo. Essi erano occupati presso un'impresa che per un appalto ottenuto dal Municipio, ha il compito di ripulire il fondo dei canali bianchi. Questi canali sono corridoi sotterranei dell'altezza di un metro e venti, larghi 60-70 centimetri, nei quali confluiscono tutte le acque piovane. Sul loro fondo perciò, a seconda delle condizioni meteorologiche, può scorrere un semplice rivolo o addirittura un torrentello della profondità massima di mezzo metro. I tre giovani di cui sopra, calandosi alternativamente sottoterra, avevano il compito di rimuovere con picconi i detriti e il terriccio fermi sul fondo. Verso le ore 15, come si è detto, essi avevano iniziato la loro attività sotto la guida diretta del geometra Bozzone del Municipio. Mentre il sedicenne Carlo Bertolina restava alla superficie, i suoi compagni Peracchione e Rosano scendevano nella fogna attraverso il chiusino posto dinanzi al numero 43 di via Cristoforo Colombo. Poco prima, per facilitare il deflusso del terriccio, con lo spostamento di apposite paratole era stata immessa dell'acqua sino ad un livello di 30-40 centimetri. Nel momento in cui il geom. Bozzone mandava il ragazzo rimasto con lui in superficie a chiudere queste paratoie, improvvisamente giungeva di sottoterra una vampata di acutissimo odore. — Mi è parsa benzina — ci ha dichiarato il geom. Bozzone — probabilmente sì trattava dello scarico di qualche stabilimento della zona. Resomi subito conto del pericolo, accorsi al chiusino successivo a quello per il quale si erano calati i due operai e li chiamai per nome. Non ebbi risposta. Il geometra, sapendo che essi erano avviati in direzione di corso Galileo Ferraris si precipitava più avanti ancora ed apriva altre due o tre botole. Ma nessuna voce giungeva in risposta ai suoi richiami. Si telefonava perciò ai vigili del fuoco. Erano le 15,50. Sotto il comando del capitano Giulia, pochi minuti dopo giungevano sul posto due distaccamenti di vigili i quali iniziavano le operazioni di salvataggio calandosi nel canale bianco attraverso le due estremità di via Cristoforo Colombo. Questo tentativo dava subito un risultato positivo: uno dei giovani, il diciannovenne Aldo Rosano, veniva ritrovato semisvenuto all'altezza del chiusino posto all'incrocio con via Cassini. Egli dunque aveva percorso un duecento metri dal punto dov'era disceso. Il ragazzo, sebbene fosse afflosciato sulle ginocchia con l'acqua che gli arrivava a metà petto, rispondeva al richiamo dei soccorritori — E' terribile — egli diceva — è terribile ciò che è successo. All'ospedale Mauriziano, dove giungeva con un'autolettiga, il dott. Vottenani gli riscontrava sintomi d'intossicazione, probabilmente causati da metano, guaribili in una decina di giorni. Il Rosano però era in preda ad un forte choc nervoso. Per ore ed ore non ha fatto altro che chiedere notizie di Gianni, del suo compagno scomparso. Siamo riusciti tuttavia ad avere da lui un racconto del tragico accaduto. Ci eravamo da poco calati, quando fummo investiti da un gas acre, irrespirabile. Gianni, che era davanti a me, per primo ha invocato soccorso, ma non siamo stati uditi. Io mi sono chinato su me stesso dopo aver corso in avanti per un po'. Non vedevo, perchè la lampada ad acetilene era caduta nell'acqua. Non posso dire di più, ma «sento» che Gianni è morto. L'acqua che scrosciava impetuosa sino al ginocchio era sufficiente per trascinarne via il corpo. Nel frattempo, per tutta la lunghezza di via Cristoforo Colombo i vigili del fuoco intensificavano lo ricerche dell'altro operaio: il 18enne Giovanni Peracchione. Non ostante il canale sia parzialmente chiuso da un griglia all'altezza di corso Galileo Ferraris, i sondaggi venivano compiuti anche oltre questo sbarramento che non è tale da impedire il passaggio di un corpo esanime. Tutto invano. Sul posto si portavano il prefetto dott. Carcaterra ed il questore dott. Ferrante, mentre centinaia di persone sostavano in muta e trepida attesa. Servendosi di una mappa del canali sotterranei, l'ing. Previti, comandante dei vigili del fuoco, dirigeva le operazioni di soccorso anche lungo i cunicoli trasversali. Nessuna traccia; solo alle 21,30 veniva ritrovata la lampada ad acetilene sfuggita dalle mani dello sventurato ragazzo nel momento in cui era stato colto dalla venefica esalazione. Sorgevano molte congetture legate ad un filo di speranza: forse il giovane si era ripreso e, in preda a terrore, era fuggito per i canali secondari. Ma come spiegare il fatto ch'egli non veniva scorto nonostante il rastrellamento minuzioso? A poco a poco prendeva consistenza un'ultima congettura, la più drammatica. Quasi sicuramente il corpo inanimato del Peracchione era rimasto travolto dal corso d'acqua e trascinato sin verso i cunicoli collettori che riversano, dopo chilometri di percorso sotterraneo, l'acqua nel Po. Un gruppo di vigili si recava perciò in attesa presso lo sbocco delle fogne nel fiume. Apprendiamo intanto da Lanzo che Giovanni Peracchione è figlio di una poverissima donna che, proprio da lui, traeva sostentamento. Mille lire al giorno, guadagnava questo ragazzo e con esse manteneva, oltre alla madre, una sorella ammalata. Tutte le sere giungeva a casa con il treno in arrivo alle 19 circa. Quando un nostro cronista ha portato ai familiari la tremenda notizia — erano le 21 circa — essi già erano in preda ad una angoscia piena di presagio. Indicibile è stato il loro dolore. Madre e sorella sono partite subito alla volta di Torino.
12 Luglio 1951 NUOVA STAMPA SERA 

RICUPERATO STAMANE IL CADAVERE DEL GIOVANE OPERAIO

Alle ore 9 di stamane il corpo dello sventurato operaio scomparso nella rete di canali della fognatura bianca (quella per lo spurgo delle acque piovane) di via Cristoforo Colombo, è stato finalmente trovato in un collettore sotterraneo di via San Secondo angolo corso Sommeiller. Il poveretto era disteso sull'acqua, irigidito nella morte. L'avevano trovato gli operai Delfino Mariotti, Celestino Baruffalo, Pierino Ferrero e Angelo Mariotti della Impresa Serra e Bioletto addetta alla ispezione delle fognature. I quattro operai erano rimasti svegli tutta la notte alla ricerca affannosa nella rete di canali sotterranei del loro compagno scomparso. Quando la salma del poveretto veniva portata, attraverso il chiusino del collettore, alla luce del giorno e distesa sul controviale di corso Sommeiller, una folla di passanti si raccoglieva sul posto. Poco dopo giungevano alcune jeep della Celere, agenti del Commissariato San Secondo e il medico municipale. Più tardi la salma veniva trasportata all'obitorio per l'autopsia. E' di ieri la notizia della scomparsa del Peracchlone, un giovane di Lanzo che, con il suo modesto lavoro alle dipendenze della Impresa Serra e Bioletto, manteneva la madre ed una sorella ammalata. Ieri pomeriggio lavorava con due compagni Aldo Rosano di 19 anni e Carlo Bertollna di 16 anni alla ripulitura delle fogne bianche di via Cristoforo Colombo. Il Bertolina, rimasto alla superficie, avvertiva una zaffata di gas sprigionarsi dal chiusino. Temendo per i suoi compagni, si rivolgeva al geometra Bozzone del Municipio, che dirigeva i lavori. Questi, chino sull'apertura, chiamava a gran voce gli operai. Nessuna risposta. Evidente che i due erano rimasti vittime della venefica esalazione. Il geometra Buzzone telefonava ai vigili del fuoco, i quali giungevano sul posto pochi minuti dopo. Fu possibile rintracciare quasi subito il Rosano; era svenuto afflosciato sulle ginocchia con l'acqua alla cintola, ma salvo. Le ricerche ripresero per il Peracchlone. Purtroppo durante tutta la notte esse non diedero risultati.

Giovedì 12 Luglio 1951 LA NUOVA STAMPA Anno VII - Num. 163 
La tragedia del giovane operaio scomparso nei cunicoli della fogna.
Il misero corpo è stato ritrovato ieri in un canale di via Cristoforo Colombo
Morto per intossicazione o annegamento? Il dramma dell'operaio diciottenne Giovanni Peracchione, scomparso martedì pomeriggio nella fogna di via Cristoforo Colombo, è giunto ieri mattina all'epilogo. Dopo ore ed ore di vane ricerche il cadavere è stato ritrovato, contratto e sfigurato sulla melma di un canale collettore ad un chilometro e mezzo circa dal luogo dove il giovane era stato colto da intossicazione. Ora che le operazioni, tese prima ad un disperato tentativo di salvataggio e poi al recupero della salma, sono concluse, le autorità competenti hanno iniziato una severa inchiesta sia per ricostruire tutti i particolari, sia per accertare eventuali responsabilità. Tuttavia l'inchiesta, proprio perchè severamente condotta, deve procedere con estrema cautela. Sinora il commissariato San Secondo ha accertato che tanto il Peracchione, quanto i suoi giovanissimi compagni, Aldo Rosano, tratto a salvamento, e Carlo Bertolina, che al momento dell'incidente si trovava in superficie, già avevano acquistato buona pratica nel duro lavoro. Non era prevedibile che all'improvviso nel condotto sotterraneo si sprigionasse una venefica esalazione la cui origine, molto probabilmente, è destinata a rimanere ignota. Si era parlato in un primo tempo dello scarico di qualche sostanza chimica da parte di uno stabilimento industriale, ma è ben difficile stabilire da che punto il tossico sia penetrato nel canale bianco dove il Peracchione stava lavorando. Sopra di lui e sopra il Rosano erano aperti due chiusini; il destino avverso ha voluto però che i ragazzi, forse messisi a correre perchè presi dal panico o forse trascinati dal piccolo corso di acqua mentre erano semisvenuti, andassero subito a finire 150 metri oltre il punto dove si erano calati nella fogna. Secondo un'ipotesi, già affiorata mentre si svolgevano le operazioni di soccorso, il ragazzo forse non ha resistito all'intossicazione ed è crollato esanime nel fondo del canale. In tal caso l'acqua, sebbene fosse profonda soltanto una trentina di centimetri avrebbe potuto trascinare il corpo per la diramazione che lungo via Cassini va a sfociare nella vasta galleria di collegamento posta nel sottosuolo di corso Peschiera. Secondo un'altra ipotesi (in un certo senso più spaventosa) il ragazzo dopo un primo momento di collasso si sarebbe ripreso e con i suoi mezzi, avendo però la mente ottenebrata dal terrore, sarebbe corso in cerca di scampo lungo il cunicolo di via Cassini. Privo però di orientamento e senza l'ausilio della lampada ad acetilene cadutagli nell'acqua, avrebbe raggiunto senza accorgersene, il canale di corso Peschiera. In questo sbocco vi è un salto di 2 metri circa: sufficiente per determinare una caduta rovinosa nel corso d'acqua che qui supera i 60 centimetri ed è alquanto impetuosa. Il recupero della salma è stato compiuto ieri mattina alle 9 circa da sei valorosi operai che spontaneamente avevano voluto cooperare con i vigili e i dipendenti municipali prodigatisi nelle pietose ricerche. I poveri resti di Giovanni Peracchione ancora non sono stati restituiti alla desolatissima madre che è giunta martedì sera a Torino da Lanzo. Il cadavere si trova all'Istituto di medicina legale, dove oggi il prof. Toso compierà l'esame necroscopico per accertare se la morte è stata causata dal l'intossicazione e da annegamento. Anche questi elementi saranno utilissimi per l'inchiesta in corso, alla quale già hanno dato la loro cooperazione tecnica funzionari dell'Istituto di Previdenza. Naturalmente, dopo le indagini della polizia, anche la magistratura dovrà pronunziarsi in merito a questo luttuoso episodio.



martedì 20 dicembre 2011

Cavallette in Valle di Susa


Gli insetti come strumento della volontà divina: Se tu rifiuti di lasciar partire il mio popolo, ecco io manderò da domani le cavallette sul tuo territorio. 5 Esse copriranno il paese, così da non potersi più vedere il suolo: divoreranno ciò che è rimasto, che vi è stato lasciato dalla grandine, e divoreranno ogni albero che germoglia nella vostra campagna. 6 Riempiranno le tue case, le case di tutti i tuoi ministri e le case di tutti gli Egiziani, cosa che non videro i tuoi padri, né i padri dei tuoi padri, da quando furono su questo suolo fino ad oggi!». (Esodo,10)
Su questa base ritroviamo nel '500 in Val di Susa un analogo giudizio. Cavallette mandate da Iddio per punire
Dalle memorie del notaio Lorenzo Gally di Oulx pubblicate nel 1886 da Edmond Maignen, bibliotecario di Grenoble, su "Le Dauphiné" (tratto da Segusium, agosto 1970, n°7).

"Il primo settembre dell'anno 1542 fummo colpiti da nostro Signore con un flagello, che fu già in altri tempi il tormento del Faraone. Dal paese di Piemonte o di Romagna sono arrivati alcuni sciami di locuste, che caddero dal cielo sulla plebania del sig. Prevosto d'Oulx. Ma prima ancora del loro arrivo si udiva già in lontananza un tale rumore che si sarebbe detto essere un vento impetuoso, poichè la moltitudine era così grande che offuscava il sole, talchè si sarebbe detto che l'astro fosse malato e perdesse di luminosità. La gente che si trovava per strada era inquieta, in quanto era assalita da ogni parte con impeto. Le cavallette erano lunghe e grosse come un dito mignolo; avevano le ali quasi verdi, et parevano bardate come cavalli, e non bisogna stupirsi se il loro numero era così grande, che io ne ho visto dei mucchi. Sembravano dei sorci, poichè distrussero le messi e tutti gli altri raccolti, comprese le tenere pianticelle, che tante ne sbocciavano e tante ne venivano divorate. E' cosa degna di ricordo, giacché è Dio che così volle che fosse; e poiché i grani furono divorati, così il raccolto non fu sufficiente per pagare le decime. Noi ignoriamo da dove ciò proviene se non dall'ira di Dio"

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Dal manoscritto Gendre Millaures le 1er Mars 1913.

Ce livret appartien a Gendre Maximin feu Benoit

"Gli anni 1919 - 20 - 21 siamo assediati dalle cavallette e siamo assediati dalle miserie della guerra"
<>  


Les terribles catastrofes de 1884 et 1885



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Dal Manoscritto Guiffrey, antica famiglia di Bardonecchia.
"Observations faites par les historiens du 1308 jusquau il est arrivé les cas suivants: 6 fois le fleau des sauterelles"
"1923: Le cavallette continuano la loro opera devastatrice "


Il problema cavallette non è nuovo per la Val di Susa e presenta discrete ricorrenze.

Nel luglio 1935 compare un trafiletto su La Stampa riportante un articolo del Testo Unico della Finanza locale che autorizza i Comuni ad istituire particolari prestazioni d'opera: tra esse l'impiego, fino a 4 giornate di lavoro l'anno, di capi di famiglia residenti nel comune da adibire alla lotta contro le cavallette.
In un articolo su La Stampa del dicembre 1940, scritto in occasione dell'istituzione in alta Valle della Stazione Sperimentale alpina, si cita la soluzione adottata per combattere il flagello ossia l'impiego di tacchini e faraone, metodo di lotta biologica efficacissimo, stando ai risultati ottenuti......
Di nuovo il problema è presente comunque nel 2004 e sono i margari a patirne le conseguenze.

Per chi desidera un approfondimento consiglio: Massimo Centini, Il grande libro dei misteri del Piemonte risolti e irrisolti. Newton Compton Editori, 2007 pagg. 251-255

martedì 13 dicembre 2011

Il Cinema Eliseo di Torino

Da "Circuito Cinema Magazine" Anno I n°5, Ottobre 2003

Dietro Antonioni, Truffaut e Spielberg c’è la battaglia silenziosa e oscura di tanti piccoli esercenti che
hanno deciso di fare delle storie in celluloide il loro mestiere, la loro vita, la loro ragione d’essere», recita
l’introduzione del libretto Il grande sogno che anni fa esplorava l’avventura dell. Eliseo di Torino a cento anni dall’invenzione dei Lumière. E come fu per i pionieristici francesi, anche la prima multisala d’Italia ha una storia di battaglie da raccontare che inizia dall’intuizione di due fratelli. Correva l’anno 1913 quando questi impugnarono la penna chiedendo al sindaco del capoluogo sabaudo "il permesso per costrurre una tettoia chiusa a uso cinematografico, sul nostro proprio terreno posto in Via Monginevro". Contagiati dal virus della settima arte, Alfredo e Ferdinando Brovetto, questo era il loro nome, portarono così il grande schermo a Borgo San Paolo, un quartiere simbolo dei tempi che andavano cambiando il profilo cittadino. All’epoca gli abitanti erano perlopiù contadini: saranno le industrie della zona (la Lancia, l’Automobili Ansaldo, la Sit, la Westinghouse, ecc.) a popolare vie, prati e appezzamenti trasformandone per sempre l’atmosfera bucolica. Al progetto dei fratelli Brovetto (che nel disegno originario è denominato Cinema Grande e porta la firma di Carlo Sgarbi) venne concesso il permesso con una delibera del 12 marzo 1913. Il locale, battezzato Moderno-Monginevro, debuttò solo qualche mese più tardi con 280 posti a sedere. Nell’operosa borgata torinese il tempo da dedicare allo svago scarseggiava, ma la sala era sempre frequentatissima grazie ai prezzi dei biglietti: 20 centesimi per i primi posti, 10 per le seconde file. Per pochi spiccioli Borgo San Paolo conobbe il mondo: Max Linder, i comici americani, le follie di Cretinetti (al secolo André Deed), gli occhi accattivanti di Hesperia, l’intrepidezza di Bartolomeo Pagano e le audaci scollature Lyda Borelli conquistarono l’immaginario operaio che solo durante la Grande Guerra (per l’imposta gravosa sugli ingressi voluta dall’erario allo scopo di sostenere l’industria bellica) prese un po’ le distanze dalle emozioni in celluloide. Nel dopoguerra il Moderno-Monginevro diventò "Brovetto", come i suoi proprietari, ma la gestione passò nelle mani di Ferdinando, il più cinefilo dei fratelli. Gli studios americani misero in crisi la produzione nostrana: la California approdò a Torino con i suoi vari Chaplin, Greta Garbo e Rodolfo Valentino, tutti a cavallo fra cinema muto e parola. Dal 1931 diverse persone si alternarono alla gestione del cinema, da Adelina Brovetto a Cesare Pasero, Giovanni Pizzio ed Ernesto Monferini. Quest’ultimo, lungimirante imprenditore di origini contadine, nel 1938 si lanciò in un’importante ristrutturazione per "renderlo più adatto e confortevole sotto tutti gli aspetti": gli abitanti di Borgo San Paolo erano ormai 90.000. Nei suoi progetti la sala diventò a ventaglio, le pareti vennero ricoperte di Eraclit fonico per migliorarne l’acustica. Gli architetti Luigi De Munari e Giorgio Caraccio riuscirono a risolvere con una facciata modernista l’angolo che nasceva dall’incrocio delle due vie, sostituendo la copertura in legno con il cemento armato. Non sarà l’entrata in guerra del Paese a svuotare le sale né i bombardamenti del novembre 1942 che distrussero parzialmente l’edificio interrompendone le proiezioni per due anni. La famiglia Monferini lo restituì al suo pubblico già nel 1944, abdicando solo nel 1974, quando Bruno e Lorenzo Ventavoli acquistarono l’Eliseo chiudendo l’ultimo anello di una catena intorno ai cinema che gestivano nel centro cittadino. Lo storico locale di Borgo San Paolo è sopravvissuto alla crisi degli anni Ottanta trasformandosi nella prima multisala d’Italia. Era il 1983; oggi l’Eliseo festeggia 90 di vita sotto il timone di Lorenzo Ventavoli, amministratore delegato di Circuito Cinema Torino, società che da un mese si è associata a Circuito Cinema s.r.l.

Intervista di Sonia Cenciotti e Silvana Sarcinella



domenica 11 dicembre 2011

Ricordi d'infanzia: l'incendio


16 settembre 1957

Si trattò a tutti gli effetti di un grande evento. L'agitazione delle persone che guardavano dai balconi l'immenso rogo, il vociare concitato lontano, le sirene delle autopompe e quel colore rossatro che tingeva ogni cosa intorno. Cercavo di sentire i commenti dei vicini di casa, di cogliere segni di preoccupazione sul viso dei miei genitori. Per la prima volta mi rendevo conto che il mondo reale fino a quel momento solo visto o sentito alla televisione o alla radio, poteva irrompere improvvisamente con tutta la sua drammatica forza nella mia tranquilla esistenza. L'estate era ormai finita e di li a poco avrei iniziato la prima elementare.

mercoledì 7 dicembre 2011

In viaggio verso Ginevra alla vigilia di Natale del 62. Culoz

La lunga attesa

Era il 1962. Qualche giorno prima di Natale. Il treno ci aveva lasciato al cadere della notte su di una pensilina deserta nella stazioncina di Culoz. La piccola motrice diesel per Ginevra era partita da un pezzo senza aspettare gli incolpevoli ritardatari.



Ci eravamo accomodati nella sala d'aspetto  dove sulle poche panche di legno scuro pioveva dall'alto la luce fioca di due lampadine nude. In un angolo ardeva una scoppiettante stufa a legna che gettava sulle pareti ombre in continuo movimento. Davanti a noi sedevano pochi altri viaggiatori, chiusi in un impenetrabile e silenzioso riserbo. La stazione oltre i vetri della stanza era deserta, con rari lampioni lungo l’unico corpo centrale. Brevi tunnel collegavano i due tronchi ferroviari, il Quai 1 e il Quai 2. Mio padre sembrava assorto e preoccupato, mia madre chiedeva senza aspettare risposta, cosa fosse meglio fare. I cugini di Ginevra avrebbero aspettato. Di telefonare neanche parlarne, troppo complicato. Le ore passarono lente una due poi tre e infine  quattro. La notte era fonda quando arrivò da chissà dove il nostro treno. Seduto finalmente nello scomodo posto vicino al finestrino pensavo che di Culoz mi rimaneva il ricordo di 2 binari, di una tettoia in legno e di qualche basso caseggiato in lontananza. Del paese che di sicuro aveva una piazza, una via principale e dei negozi, nulla. Il ruggito del motore in accelerazione precedette di poco lo scossone della partenza finché la notte buia popolata qua e la di fioche luci ci inghiottì lasciando dietro a noi la pensilina di nuovo deserta.  

Recentemente ho trovato un interessante estratto dal libro di  Jean-Christophe Bailly | Culoz («Le dépaysement »), 2011 che cito testualmente:


Culoz, dans le département de l’Ain, pour la plupart des voyageurs ce n’est qu’une gare : lieu entraperçu (mais surtout pas non-lieu – la fortune de ce concept vide, même s’il désignait tout autre chose (les aires neutres des aéroports) a été catastrophique à sans presque rien autour – un village (ou une ville ?) que l’on ne voit pas, des contreforts rocheux, des bois, des voies qui semblent abandonnées, sur une aire assez grande, peut-être des hangars. Un noeud ferroviaire, comme nous on disait, où se rencontrent les lignes qui conduisent de Paris ou de Lyon à Genève et celles qui viennent d’Aix-les-Bains et de Chambéry, mais qui semble être resté de côté et n’avoir pas été pris en compte dans la modernisation des transports : les amis de Genève m’évoquent le souvenir, datant des années soixante, de nocturnes et quelque peu mystérieux changements de train et, aux heures creuses de l’après-midi, on peut même sans peine remonter plus loin dans le passé : il y a en effet dans cette gare comme une vibration d’anciens convois, avec des malles, des troufions et de la vapeur – c’est là aussi qu’un jour, en passant, je vis rouler lentement, seul, détaché, un wagon à ridelles sur la plate-forme duquel, étrangement, quelque chose brûlait. En tout cas l’idée m’est venue d’aller voir de plus près ce qui pouvait bien se cacher derrière ce nom, Culoz, et j’avais l’espoir, soit d’un charme désuet, soit d’une tendresse encastrée, comme le Bugey en ménage la surprise (mais un peu plus à l’ouest, vers Saint-Rambert ou Virieu).
Or rien comme cela n’advint, et c’est ce que je dois raconter, non parce que simplement je me le serais dit, mais parce qu’il m’a semblé tomber là-bas sur une sorte de siphon – non seulement ce que l’n appelle un trou, mais quelque chose de très difficile à décrire, soit l’un de ces lieux, et sans doute y en a-t-il beaucoup, où ni le passé, ni le présent, ni l’avenir n’ont de consistance et où tout semble devoir se diluer dans une sorte de survie qui n’a même pas pour elle l’indolence. Peut-être est-ce là, aujourd’hui, que se cache, loin des centres et comme en exil au sein même du monde rural, la vraie banlieue ? Je ne sais pas, et je sais pas non plus s’il faut nommer, rassembler sous la houlette d’un nom générique ce qui malgré tout se déclare dans une complète solitude.
À proximité immédiate de la gare, tout ce qui pourrait faire penser que l’on est arrivé en un point du monde qui aurait le bonheur ou peut-être même la présomption de se déclarer comme tel n’existe plus. Le Derby Bar, au pied d’une maison grise, et un hôtel surmonté d’un fronton en bois genre Far West où se lisent encore vaguement les lettres IMPERA sont fermés l’un comme l’autre. À travers les rideaux déchirés de l’hôtel, on aperçoit une grande salle vide avec quelques gravats et une cheminée en briques. On pense à de lointains banquets, à ces photos de groupe en noir et blanc ou aux couleurs passées où tout le monde autour de la table encombrée de bouteilles prend la pose, l’un des convives, un peu en retrait, faisant le mariolle. Une route s’en va vers le centre sous la roche grise dont il est inutile de s’approcher (chutes de pierres). Le centre, quelques rues qui se croisent, sans même qu’il y ait une place, de jeunes Beurs qui errent, un bar qui s’appelle le Rif, un autre le Fidji. Les maisons sont petites, laides, tout est gris ou ocre sale, des bacs à plante vides ornent le pont qui franchit une rivière mince et incertaine, juste à côté de la toute petite maison où, une plaque le signale, HENRI ET LÉON SERPOLLET, PRÉCURSEURS DE L’AUTOMOBILE, INVENTÈRENT EN 1875 LA CHAUDIÈRE À VAPORISATION INSTANTANÉE, il y a donc des gloires locales. Sans même que l’on s’en rende compte, on sort déjà du bourg, il y a une usine sans identité déclarée, un stade, un arrêt de bus en tôle sous des pins. Dans une côte, des garçons qui font du raffut sur de petites motos (un bruit ancien, rural). Retour vers le centre en fermant la boucle, je note les noms, la tristesse des noms : Salon Coiff’Lyre, O’Thentik prêt-à-porter (dans la vitrine, des blouses aux motifs d’épouvante, ceux qui les dessinent – qui est-ce ? – sont en phase avec ceux qui trouvent de tels noms). Là où peut-être existe un carrefour principal, les commerces en vue sont une boulangerie, une pharmacie et un distributeur de vidéos, je pourrais même ajouter le crocodile en peluche dans la vitrine d’un salon d’esthétique et des lupins poussant dans un puits comblé, des pavillons délaissés, une odeur d’eau de Javel, à quoi bon ? On l’aura compris, Culoz n’est pas un lieu de villégiature que je recommanderais, je peux même dire qu’assez vite je m’en suis enfui. Pour Lyon, où étrangement aucun de mes amis n’était là et où je me suis précipité à la brasserie Georges, pour corriger par la vision de l’immense salle Arts Déco, où cinq cents couverts peuvent être servis en même temps, les effets déprimants de ma halte culozienne. La brasserie Georges comme un rêve de paysan, les lumières de la ville et de solides nourritures sous de très hauts plafonds évoquant des retours de comices, des congrès, des fiançailles.
Donc attendant en gare de Culoz le train pour Lyon, je me suis occupé à détailler ce que l’on peut y voir et qui relève là aussi du délaissement, mais avec quelques appels nostalgiques d’un temps où le « chemin de fer » était roi : l’abri en forme de chalet aux motifs de bois festonnés, la passerelle métallique peinte en bleu clair, des rosiers chétifs et de lourds bancs de bois ou de béton sous quelques platanes, une salle d’attente avec papier peint à mouchetures, des chaises d’école dépareillées et une table de cuisine en Formica sur laquelle on trouvait Le Pèlerin et Valeurs actuelles. Qui dira la violence et l’efficacité avec lesquels de tels lieux – salle d’attente proprement dite ou quais déserts – installent une idée de la vie qui se prive presque automatiquement de toute dimension d’espoir ? C’est comme un forme de raffinement, mais à l’envers, et peut-être aussi comme une culture : il y a en tout cas une chaîne de sens unanime qui se transmet d’une gare à une autre, d’un bac à plantes à un autre et qui transite par toutes les herbes folles poussant le long des voies. À la fin, non seulement on s’habitue (l’attente se coule en elle-même, s’éprouve jusqu’à figurer une forme indolore du temps) mais on en redemande, non par un quelconque et snob appétit pour ce qui serait kitsch mais pour des effets de vérité, de véridicité, déposés à même les quais – une idéologie naïve qui vaut ce qu’elle vaut, fondée sur le principe que les fleurs, quelles qu’elles soient, égaient et que les trains, somme toute, finissent par arriver à l’heure, même s’ils sont en retard : idéologie, on le voit, à l’opposé celle, dominante, de l’efficacité lisse qui, elle aussi, a ses ornements, par exemple des palmiers ou des oliviers exilés dans de grands pots stupides comme on en voit gare de Lyon.
Mais la seule image qui peut-être a la force de se poster avant toutes ces autres, et peut-être aussi banale qu’elles, est celle de ce couple croisé alors que j’étais monté sur la passerelle et qui passait devant la gare, sur la route – lui, en survêtement et barbu, poussant un landau, elle, marchant à son côté, intégralement voilée. Un couple de mulsulmans intégristes, donc, comme on en voit désormais si souvent, mais qu’on ne se serait pas attendu à trouver à Culoz, alors même qu’en ce genre de lieux – villes ou villages égarés ou misérables, zones de péri-industrie, grande, voire très grande banlieue - c’est la règle. Ils étaient là, donc, dans la banlieue de rien, dans ce rien épars de la rurbanité nouvelle, et se parlant et riant, en promenade. Me voyant les regarder, l’homme me jeta un regard sans insistance, vaguement hostile, et c’est tout – ma pensée les accompagna ensuite, vaguement hostile elle aussi, puis s’interrogeant. Ce que je voudrais, c’est dire absolument et simplement de quoi elle était faite – de le dire, donc, à distance de toute déclaration comme de toute posture (lesquelles, de façon pénible, obsédante, sont l’une et l’autre d’usage courant aussitôt qu’il est question d’immigration et, plus encore, d’islam).
Donc au début, je l’ai dit, une vague hostilité : pas un mouvement de haine, mais un retrait, quasi un réflexe – pourquoi le nier ? Rien, dans ce qui nous fabrique et nous lance en avant dans le monde (et ce serait d’abord un fond républicain remontant à l’école publique des années cinquante – oh, il faudrait tout détailler, suivre toutes les ramifications de ce sentiment laïque spontané), ne peut préparer à cet effacement volontaire du visage féminin dont le voile est la marque. Rien non plus, si l’on pense aux gestes que la pratique rigoureuse de l’islam requiert – ces prières, ces interdits, cette absence de doute et d’ironie –, qui s’avance vers nous d’une façon compréhensible, directement admissible : les « limites de la simple raison » sont dépassées d’emblée et c’est ce qui nous crispe, mais voilà, en même temps, je dois le dire, de ce couple qui n’était pas silencieux – ils se parlaient, ils riaient – se dégageait une sorte d’harmonie, la sensation d’un partage, aussi bien, par le costume ou la panoplie, une intimité et peut-être une résistance à l’absorption pure et simple dans une nation en laquelle ils ne se reconnaissent pas. Comme c’est difficile ! Puisque je ne cherche à rien justifier, et surtout pas l’intégrisme et sa revendication haineuse, absolument tendue. Mais il y avait cette passegiata (y a-t-il un mot arabe pour désigner cela ?) et ce que je pouvais, à travers elle, imaginer de la vie de ces gens venus d’ailleurs et échoués là, à Culoz, dans un plu caché du monde sur lequel il tentaient une sortie : par conséquent leur cuisine et leur chambre, le tapis de prière roulé dans un coin, un calendrier, un biberon aussi, et des oranges, une bouilloire électrique, un sac de pain de mie à demi entamé... la nature morte que chacun improvise, la communauté facile des objets, comme un repli ou un refuge et ce que je sais, ce que je peux dire, c’est que « la France » est faite maintenant de cela, de cela aussi : de ces exils, de ces replis, de ces autels secrets et qu’il y a là comme un effet boomerang de l’époque coloniale, quand des hommes et des femmes, peut-être catholiques, venus d’Alsace ou de Normandie, poussaient eux aussi leurs landaus sur des chemins, à Tlemcen ou dans telle petite ville d’Algérie, un peu plus gaies peut-être que ne l’est Culoz.

 ©  Jean-Christophe Bailly & éditions du Seuil, Le Dépaysement, avril 2011.