venerdì 5 giugno 2015

Una visita al parco del Castello di San Salvà.

Mentre parla, cerco di leggere nei tratti del viso, nelle espressioni del linguaggio, qualcosa che mi riporti alla memoria la storia della sua famiglia, le varie vite che si sonno susseguite nei secoli per arrivare a creare questa cordiale persona che parla di questo grande parco, immerso nella campagna alle porte di Santena. Dalla statale, che in un susseguirsi di brutti edifici e capannoni commerciali porta a Porino e molto oltre ad Alba, non è possibile scorgere il cancello che chiude questo angolo di pace, popolato di alberi centenari, radure e piccoli specchi d'acqua. Il castello è un parallelepipedo di mattoni, ingentilito da numerose finestre su tre ordini di piani. Sono tutte chiuse, l'edificio non è visitabile. Seguiamo il gruppo che si sposta verso un piccolo laghetto naturale a forma di virgola, con un isolotto al centro. Sul percorso, in lontananza, si scorge il fusto spezzato della quercia centenaria che, possente, punta ancora verso il cielo il suo tronco sbrecciato. Un albero importante,  censito tra gli alberi storici del Piemonte. E' morto, l'espressione cela un rimpianto profondo, come quello che si riserva per le persone care che non sono più, qualche anno fa, preda di parassiti e del tempo.... E pensare che per anni, prima che tutta l'area fosse recintata, aveva resistito agli assalti domenicali di orde di gitanti, che all'ombra delle sue fronde, allestivano puzzolenti grigliate carnivore. Consola vedere adesso, che tutt'intorno stanno nascendo esili querciole da cui tra decine di lustri nascerà forse una figlia dominante. Si chiama Laura la nostra guida, erede dei Sambuy. Le chiedo quanto nella sua educazione ha contato la vita dei suoi avi. Nei secoli più vicini a noi fino alla fine del diciannovesimo secolo il culto degli avi rafforzava una visione e un sentimento della famiglia che avevano un significato ampio e profondo: la percezione di formare una casata che univa i suoi mmbri in una lunga catena di generazioni... Questo si legge nel bel libro di Anthony Cardoza sulla nobiltà piemontese dell'800. La disillusione e il disorientamento che fan seguito alla prima guerra mondiale, recisero molti dei legami che mettevano le giovani generazioni in contatto col loro passato. La Sig.ra Laura mi conferma questo assunto. Lei stessa, per esempio, ha avuto come figura di riferimento il trisnonno Ernesto Balbo Bertone, personaggio di poliedrici interessi. Di lui rimane oltre che l'essere stato sindaco della città di Torino, un bel diario di viaggio  (1861-1862)  nell'Iraq ottomano alla ricerca di cavalli di razza. L'autore, tra l'altro si dimostrò, con i numerosi disegni che descrivono l'anno di avventure, un discreto illustratore. La vicenda umana del trisnonno, per la giovane discendente, non si è inserita però in una metodica educazione dottrinaria come avveniva un tempo. E' soltanto un frammento di una memoria familiare spogliata di ogni intento celebrativo. La passeggiata nel parco intanto continua. Mi chiedo, cammin facendo, quanto grande deve essere l'impegno finanziario, oltre quello di tempo, per mantenere vivo questo grande spazio verde. La visita, è ormai passata un'ora abbondante, si conclude nelle cascine che si incontrano sulla destra del viale di accesso al Castello. Sono uno spazio storicamente interessante perchè costituiscono uno dei pochi nuclei originali di tessuto feudale (Castello, parco, stalle, cascine) soppravvissuti in Italia. La ristrutturazione è stata condotta con i più moderni presidi tecnici, nel rispetto scrupoloso dell'ambiente (centrale termica e uso studiato di materiali). Dei contadini, che hanno in uso parte della proprietà agricola, stanno lavorando in un angolo dell' immensa corte. Un semplice cartello "Vendita di asparagi" ci riporta alla vita di ogni giorno, lontani dai fasti di antiche nobiltà.
Salutiamo, lasciando dietro di noi questo interessante frammento di storia che da quasi 800 anni continua sotto le spoglie della famiglia Sambuy.


La grande quercia: vestigia

Il castello, visto dal parco


La Stampa 17 Dicembre 1926                                        Ai tempi di Sambuy
Vi sono ancora a Torino dei vecchi nostalgici, un po' brontoloni, che sovente con un vago gesto di rimpianto si richiamano ai tempi del sindaco Sambuy. E nulla pare loro bello, nulla par loro nobile abbastanza, se pensano a quell' epoca ormai lontana; forse oggi però gioiranno nella speranza che si riprenda una tradizione squisitamente torinese. E cosi sia! Poveri vecchi hanno ragione: ai tempi del sindaco Ernesto di Sambuy, Torino cominciò davvero a diventare una grande città: si fece più bella, più ampia, respirò con più vasti polmoni e con più vasti giardini e, senza rinunciare in nulla al suo carattere gelosamente cittadino, si affermò metropoli in un ordinato e disciplinato senso di operosità: oggi Torino è certo ancora assai più grande di allora, ma è certo meno... torinese! Nostalgie del passato, necessità fatali del presente... E chi non lo ricorda, l'indimenticabile sindaco Sambuy, se ebbe la fortuna di vederlo? Quando, ad esempio, stretto nell'impeccabile taglio della redingote, col cilindro sul capo dalla faccia un poco magra a linee marcate, incorniciata nell'ampia barba, guidava dall'alto, con mano ferma ed inguantata, la quadriglia scalpitante... Di ritorno dalle corse? Sì dalle corse, da Mirafiori, dove in gara i cavalli della sua bella scuderia avevano portato alla vittoria i colori della sua casacca. Oh, come ci prende talora la nostalgia dei bei ritorni d'un tempo! Quando non c'erano automobili, ma invece le pariglie e le quadriglie erano innumerevoli, quando le belle signore non avevano i capelli tagliati, quando gli ufficiali non erano in grigioverde, ed i gentiluomini amanti dello sport portavano ancora il cilindro e l'abito color gris-perle! E come accorreva la borghesia ed il popolo a vedere i bei ritorni, il giro delle carrozze, e come l'un l'altra le donnette si indicavano gli equipaggi, sussurrando qualche pettegolezzo bonario, come si usava allora!
“T’vde cóla quadriqlia— La pi bela d' tute? — Sfidò mi! A l'e cóla d’ sindich Sambuy!”
Se teneva in pugno con tanta forza le redini dell'impaziente quadriglia, moderandone la generosa corsa secondo la necessità del frequentatissimo giro, se si alzava perfino in piedi, tutti dominando coll'alta statura e raccoglieva le briglie nel pugno sicurissimo, mentre i cavalli s'impennavano sbuffanti; doveva pur sapere guidare la città con mano ugualmente ferma, doveva pure essere il miglior primo cittadino torinese che si potesse allora trovare. E tale fu davvero con energia equilibratissima, con volontà illuminata, con infinito amore per la sua città! La quale aveva bisogno, nella difficile ora. proprio di un uomo come lui. Erano i tempi delle primi crisi finanziarie che colpirono Torino, non abituata nella sua risparmiatrice onestà, i perturbamenti delle sfrenate e rischiose speculazioni; erano i tempi in cui si esaltavano le nuove costruzioni risanatrici di Roma e Napoli; e Torino, colpita da molti dissesti e fallimenti, Invece più non osava allargare le ali nel suo volo di progresso. Eppure il successo della esposizione del 1884 aveva messo nel sangue dei torinesi bògianen il fervore delle costruzioni grandiose, il desiderio delle vaste arterie pulsanti di vita, dei parchi amplissimi, dove i bimbi potessero giuocare nel sole e i pensionati passeggiare fino alla stanchezza. Ci voleva un uomo che avesse l'energia di imprimere un deciso movimento in avanti al progresso della città, che sapesse conservarle, col buon gusto innato del gentiluomo di razza, il suo carattere tradizionale, e riuscisse nello stesso tempo col prestigio della persona e del nome a far ricomparire i capitali che per il panico si erano prudentemente ritirati nell'ombra. Quell'uomo fa Ernesto di Sambuy, sotto il cui sindacato, a cominciare dal 1883, Torino diventò più bella e sopratutto più pulita: i vecchi mi po' brontoloni, nostalgici, indicando oggi con la mano già tremula gli asfalti di recente istituzione, osservano col salito col tono di rimpianto:  “Men lucide le strà  aieru, ma pi pulide” Ed in realtà hanno ragione perché il  sindaco Sambuy girava personalmente le strade per esser sicuro che anche gli spazzini eseguissero intero il loro dovere. Ma come fare a tener pulita allora quella parte vecchissima della città compresa tra la via Santa Teresa e le piazze Castello e San Giovanni? In quel dedalo di stradette e di vicoli, tra innumeri catapecchie malfamate, dai cortili oscuri, dai balconcini di legno traballanti, non era possibile alcuna pulizia materiale; ci voleva piuttosto una energica pulizia morale, un risanamento totale che tutto spianasse al suolo per ricostruire su più vaste arterie un quartiere nuovissimo. Forse sarebbe andata cosi perduta qualche singolare pennellata di colore; forse sarebbe scomparsa qualche piccola corte dei miracoli; forse le carceri avrebbero dovuto accogliere qualche inquilino di più; ma in compenso di notte, nei pressi di piazza Castello e di via Garibaldi, i portafogli sarebbero stati più sicuri nelle tasche disoneste persone. Ed Ernesto di Sambuy si fissò nella mente un suo programma edilizio e volle, fermamente volle, che il Municipio lo realizzasse. Più d'una volta battè i pugni con forza, nella sala del Consiglio, per imporsi alle prime ideologie democratiche che chiamavano improduttive tutte le spese che non piacevano ai nuovi tribuni del popolo; più d'una volta trascinò coll'esempio i colleghi amministratori, già titubanti davanti al fantasma della rivoluzione sociale. Ma riuscì nel suo intento e vide aperte al pubblico le due diagonali di via Pietro Micca e via Quattro Marzo. Si allargarono intanto anche via Genova, via XX Settembre, e tra via Nizza e il Valentino crebbe modernamente il quartiere di S. Salvario: una nuova vita insomma per Torino, un più vasto respiro di modernità, che si affermò specialmente nella sistemazione dei pubblici giardini e del Valentino su tutti, arricchitosi di nuovi viali sino alla sponda sussurrante del Po, dove si ergeva da pochi anni la poetica rievocazione medioevale del Castello. Fu quella l'età d'oro degli architetti torinesi e durò anche quando il conte di Sambuy non era più sindaco: il Riccio disegnò il progetto della Galleria Nazionale che nel 1889 congiunse via Roma con via XX Settembre, e l'anno appresso un nuovo parziale risanamento si ottenne coll'apertura della Galleria Umberto I, che mise in comunicazione la via Basilica con piazza Emanuele Filiberto. Intanto il conte Ceppi, il D'Andrade, il Cerosa etc. senza posa studiavano nuovi abbellimenti architettonici per Torino monumentale. A tutti, col suo signorile buon gusto aveva dato lo spunto il sindaco di Sambuy, quello che presso il popolo era già diventato tradizionale per le sue innumerevoli fortunate iniziative e degno della canzone fiorente su tutte le bocche come un'affettuosa benedizione. Ed il patrizio geniale non si stancava mai: alle otto del mattino entrava già nel suo ufficio per aver tempo di pensare a tutto e di escogitare ancora qualcosa di nuovo, di bello, di utile per la città, che pulsava ormai di rinnovate fattive energie. Cose grandi e cose piccole, opere di bellezza ed opere di bontà! Si disseminavano per Torino gli asili d'infanzia e sorgeva la Federazione degli asili suburbani; si istituivano le prime colonie alpine, gli asili pei lattanti, ed il ginnasio ricreativo Genero, su nella verde e sana collina Torino bella, Torino elegante, Torino buona: ecco il triplice sogno del sindaco e del benemerito cittadino Ernesto di Sambuy, un sogno che diventò in molte parti realtà. Egli era discendente di una illustre famiglia, amava la tradizione che gli avevano insegnato i suoi vecchi, ma sentiva tutte le necessità di un'era moderna: in lui anzi cosi genialmente si compenetrarono il passato ed il presente, che Torino riuscì a ringiovanirsi quasi di colpo senza nulla perdere tuttavia del suo carattere onesto, raccolto, operoso. Fu il conte di Sambuy che dette il primo notevole impulso industriale alla nostra città, ma all'industria volle che fosse conservato il sigillo piemontese: e cosi non venne industrializzata' Torino, ma piuttosto piemontesizzata l'industria... Ma gli anni passarono e passò anche il sindaco Sambuy: prima nel 1886 abbandonò il palazzo comunale per non piegare la sua autocrazia benefica alle torbide necessità democratiche; poi più tardi non si vide più nemmeno per le vie della città la sua alta, nobilissima figura. Scomparve, ma tutta la cittadinanza volle portargli un fiore di compianto: Torino aveva perso il suo vero sindaco, il sindaco operoso, decorativo, elegante, nobile, forte, atto a comandare per il bene dei suoi amministrati, atto a rappresentare la città In una immagine di energica bellezza, pronto ad abbattere tutto quanto di brutto ancora sorgesse fra il Po e la Dora!... Sono passati ormai molti anni e la tradizione oggi si riprende. Torna il sindaco Sambuy col nome augurale di Podestà, col nome che simboleggia le fortune comunali di una lontana epoca di gloria. Torna in un'ora italiana di forza, in cui tutto si può osare per la maggior fortuna della Patria grande e per la prosperità della Patria piccola che ci ha visto nascere nel più breve cerchio delle sue mura. La tradizione si riprende, ed i vecchi nostalgici, un po' brontoloni, possono atteggiare ormai i volti rugosi ad un'ombra di sorriso: tornano per Torino i tempi del conte di Sambuy!
LUIGI COLLINO

PS: Mi è capitato tra le mani la fotocopia di un libro che anni fa avevo rinvenuto sul web. E' il Journal d'un diplomate en Italie, di Henry d'Ideville, Turin, 1859-1862
Al capitolo XXI, pag 204, si legge un breve resoconto di una gita in campagna nel settembre 1861. Sceso alla stazione di Cambiano dopo un viaggio di un'ora, l'autore giunge alla proprietà di Ernesto Bertone di Sambuy e subito si meraviglia della grandiosità dei viali di accesso al castello. Dalle finestre, orientate a mezzogiorno, lo sguardo spazia sulla catena alpina, il parco gli ricorda le rive della Loira e lo Yorkshire....   La descrizione finisce con la visita del vicino castello di Santena e alla cripta dove sono i resti di Camillo Cavour.

sabato 16 maggio 2015

Su di un libro di Anthony Cardoza



Recentemente ho preso in prestito da una delle belle biblioteche civiche torinesi un testo di Anthony Cardoza. Si tratta di "Patrizi in un mondo plebeo. La nobiltà piemontese nell'Italia liberale". Mi interessava approfondire l'argomento dopo una visita all'Archivio di via Piave durante la quale la Dott.ssa Miccoli aveva en passant accennato alla figura di Compans di Brichanteau. Appena avuto in mano il libro, molto consumato, con la sovracoperta lisa e un poco dilacerata, ho notato nella seconda pagina uno scritto a matita che riporto.

"Certo che i refusi presenti in questa edizione ne fanno una emerita porcheria, priva di serietà. Del resto, alleggerlo, risulta un ammasso di gossip e ammirate curiosità. Un lettore"

Devo dire che è la prima volta, in anni di frequentazione e prestiti alle civiche di Torino, che mi imbatto in un commento sul testo vergato sul libro stesso. Il fatto mi ha incuriosito. Innanzitutto mi ha stupito l'impellenza che deve aver costretto l'anonimo lettore a esternare il suo critico sdegno di fronte all' emerita porcheria.... Il vocabolo porcheria mi ricorda tanto i termini che usavamo negli anni 50/60 del secolo scorso, da bambini. In più la scrittura spigolosa e decisa sembrerebbe quella di una persona colta ma intransigente in massimo grado. Ho così deciso di andare a vedere se il Cardoza merita un giudizio così severo..... I commenti sulla sua figura di studioso sono vari.

Sul sito della Giulio Einaudi editore si legge:
Anthony L. Cardoza insegna Storia dell'Europa moderna alla Loyola University di Chicago. Fra i suoi scrittiAgrarian Elites and Italian Fascism (Princeton 1983), Patrizi in un mondo plebeo: la nobiltà piemontese nell'Italia liberale (Roma 1999; ed. orig. Cambridge 1997) e Benito Mussolini: The First Fascist (London 2005). 


Sul sito del Dipartimento di Storia della Loyola University di Chicago:

Anthony L. Cardoza (Ph.D., Princeton University, 1975; B.A., University of California at Davis, 1969) is Professor of History at Loyola University Chicago, where he teaches courses in Western Civilization, 20th century Europe, modern Italy, and contemporary international relations. He was Chair of the Department of History from 1999-2002 and a Visiting Professor of History at the University of Chicago in 2000.

Il suo CV è inoltre di tutto rispetto

Relativamente al contenuto del libro riporto integralmente l'analisi esauriente compiuta da Signorelli.
Le ricerche di Cardoza sulla nobiltà piemontese erano note per una serie di saggi pubblicati tra il 1988 e il 1996, anni in cui lo studio delle élites si imponeva all'attenzione del dibattito storiografico sull'Italia contemporanea. In questo volume - comparso in inglese nel 1998 - lo studioso americano riprende il tema, riorganizzando i segmenti della sua indagine in una sintesi sull'identità dell'aristocrazia piemontese, la sua evoluzione dall'antico regime al XX secolo e il suo peso politico ed economico nell'Italia liberale. In base ai dati desunti da uno spoglio massiccio degli atti successori, Cardoza delinea permanenze e mutamenti nelle scelte patrimoniali e matrimoniali dell'aristocrazia di sangue dall'Unità ai primi decenni del '900. I dati economici sono integrati con l'analisi quantitativa e qualitativa di altre fonti utili a individuare la presenza dei nobili, e il ruolo da essi svolto, in ambiti di pertinenza delle élites: circoli e collegi, esercito e corpi professionali, teatro e opere pie, corte e comitati elettorali. Ne emerge il profilo di un ceto ancorato a valori e stili di vita radicati in un passato antico intessuto di privilegi feudali, glorie militari e gestione del potere, esercitato sempre in nome di principi di fedeltà istituzionale e responsabilità sociale. Riferendosi alla tesi di Mayer sulla "persistenza dell'antico regime" fino alla prima guerra mondiale, Cardoza prende le distanze sia dalla storiografia marxista e liberale che ha concentrato l'attenzione "sui grandi fattori di cambiamento" trascurando "le forze della continuità e della tradizione", sia dai più recenti studi di storia sociale sulle élites dell'800, che hanno posto l'accento sulla vitalità delle classi medie, lasciando sullo sfondo i vecchi gruppi aristocratici, nel ruolo marginale di custodi dei valori di cui si impadroniva la borghesia in ascesa. La tesi sostenuta nel volume è che, nel caso del Piemonte, dal 1848 alla Grande Guerra la nobiltà abbia mantenuto intatta la sua influenza sociale, economica e politica, non - come nel modello di Mayer - spendendo la propria capacità egemonica sul terreno dei nuovi comportamenti borghesi, ma, al contrario, serrando i ranghi, resistendo alla fusione sociale e investendo le proprie risorse finanziarie e culturali per mantenere un ruolo centrale nella vita pubblica, pur senza diluire la propria identità modellata sul ristretto gruppo di famiglie di origine feudale. Questo schema interpretativo si sovrappone talvolta in modo un po' rigido alle analisi dei comportamenti individuali e familiari che, nella loro varietà, disegnano la morfologia di un gruppo sociale complesso. Ed è certamente questo il contributo più rilevante del lavoro di Cardoza, che, al di là della tesi di fondo, dà un quadro ricco e ben documentato della nobiltà piemontese, che sarà tanto più utile alla conoscenza dell'articolazione delle élites nell'Italia liberale, quanto più si potrà disporre di ricerche analoghe sulle aristocrazie di altre regioni.
 In realtà l'unico refuso che l'anonimo si perita di sottolineare è un "Riccado di Netro" invece del corretto "Ricardi di Netro" a pagina 72 nella nota a pié di pagina. Un pò poco per giustificare una critica così assoluta.
Le fonti e la bibliografia del libro sono dignitose e circostanziate. Il suo passaggio presso l'archivio di Stato di Torino è ancora oggi ricordato da chi a quel tempo (1987/1989) vi lavorava: lo stesso autore tiene a ringraziare per la disponibilità la responsabile di allora (Isabella Massabò Ricci) e le sue assistenti, impegnate a soddisfare le "continue e insistenti richieste di documenti" dello stesso.
Riabilitato dunqe il Cardoza possiamo concludere con un unico appunto, che esula però dal tema del libro Patrizi in un mondo plebeo.

Se vogliamo, infatti, dell'Autore possiamo solo criticare la sua firma all'infelice petizione di intellettuali americani che nel 2011 chiedevano la cancellazione dalla toponomastica di Chicago Balbo Drive, la strada dedicata a Italo Balbo e all'imponente manifestazione seguita alla grande trasvolata del 1933. Come si legge nell'articolo di Ernesto Milani ..."Che dire? Se si vuole eliminare il nome di Balbo in quanto parte attiva del regime fascista di Mussolini governo di  Mussolini, futuro alleato di Hitler, potrebbe anche andar bene. Ma che dire di Italo Balbo, apprezzato in tutti gli Stati Uniti, e mai contestato neanche dai due sindaci Daley, che si ribellò alle leggi razziali del 1938, fu in aperto contrasto con Mussolini riguardo al patto con Hitler e che proprio per questo fu costretto  ad andare in Libia dove fu abbattuto durante una ricognizione aerea (per errore?) pochi giorni dopo l’entrata in guerra nel 1940? Nonostante le poco circostanziate accuse nei confronti di balbo contenute nella petizione all’alderman di Chicago Fioretti, Italo Balbo non fu coinvolto nella creazione di campi di concentramento in Libia e soprattutto la sua morte fu salutata con rispetto e deferenza sia dagli avversari americani sia inglesi". 

(in costruzione, continua)

domenica 3 maggio 2015

Il degrado della Tomba di Massimo d'Azeglio



La tomba di famiglia dei D'Azeglio situata nella PRIMA AMPLIAZIONE ARCATA 132, nel cimitero monumentale di Torino da tempo presenta al visitatore uno squallido spettacolo di degrado e incuria. Una lastra di vetro per di più velata da uno spesso strato di polvere, protegge il visitatore dalla caduta di intonaco e dalla precarietà delle lastre sepolcrali. Si leggono a fatica i nomi, oltre a quello di Massimo, del fratello Roberto e della di lui moglie Costanza Alfieri di Sostegno. In basso, una lastra scurita dal tempo, recita la disposizione testamentaria  per cui, contenendo il tumulo 18 persone, vi possono trovar sepoltura quelle allieve dell'Istituto dal Marchese istituito per orfane, che non avessero tomba propria. I loculi si sono tutti riempiti: l'ultimo ha accolto i resti di una maestra comunale morta a 84 anni.
Nel novembre del 1940 comunque la tomba era ancora in buone condizioni se era visitata regolarmente in occasione del giorno dei defunti, dalle autorità cittadine.

Di Massimo D'Azeglio vorrei citare la frase rivolta alla moglie Luisa Blondel, accorsa al suo capezzale negli ultimi momenti di vita. "Vedi, Luisa, come al solito.... quando tu arrivi, io parto...." Non fu un matrimonio tranquillo, vuoi per la gelosia eccessiva di Luisa, vuoi per gli atteggiamenti galanti di Massimo verso le numerose fanciulle che lo circondavano Massimo comunque confessò al fratello Roberto e all'amico Tommaso Grossi che mai era stato infedele a Luisa in tutti gli anni della loro vita coniugale.


L’ultimo discendente della famiglia D'Azeglio fu Emanuele. In giro per l’Europa, bell’uomo, benvoluto da dame e damigelle, non si sposò mai e, in questo, buon gioco ebbe l’influenza materna. Molti erano gli ostacoli frapposti da Costanza al figlio, vuoi di ordine sociale, vuoi religioso, vuoi economico.

Lettera di Costanza al figlio Emanuele

18 luglio 1832 
Ti abbiamo amato molto quando eri bambino per la bontà che il tuo carattere annunciava e che sostituiva i doni della fantasia e della vivacità di spirito. Crescendo è avvenuto in te un cambiamento in negativo. La convivenza con tuo zio vi ha non poco contribuito: lui è mio fratello, ma tu sei mio figlio, e l’affetto che ho per te supera e deve superare di molto quello che nutro per lui e che mi permette di non nascondermi i suoi difetti. Lui li riscatta con molto spirito e istruzione, nonostante i quali è stato giudicato dal nostro ambiente in modo da non rendergli qui il soggiorno facile. Il mondo è un tribunale imparziale che giudica in ultima istanza: le decisioni sono irrevocabili. E’ soprattutto al debutto d’un giovane in società che lo si giudica per sempre in base alle impressioni ricevute. Sfortunato se esse sono sfavorevoli. Occorrono anni per cancellarle. L’aridità di cuore o egoismo è ciò che si perdona meno, chi non ama nessuno, non è amato da nessuno. La migliore dissimulazione e documenti è impotente a nascondere quel difetto che ogni istante rivela”

.....E’ tempo di cominciare a prendere la vita sul serio, vedi cosa ti resta di questa vita di passioni e di disordini, la salute compromessa, tanti brutti precedenti e più avanti le ragioni stesse della vita, reputazione, considerazione, carriera e fortuna messe in forse. Che triste ricompensa per tutte le nostre sollecitudini e speranze riposte in te.
(Brani tratti da "http://www.uciimtorino.it/costanzadazeglio/2_costanza_dazeglio.pdf" 

(in costruzione)