venerdì 5 giugno 2015

Una visita al parco del Castello di San Salvà.

Mentre parla, cerco di leggere nei tratti del viso, nelle espressioni del linguaggio, qualcosa che mi riporti alla memoria la storia della sua famiglia, le varie vite che si sonno susseguite nei secoli per arrivare a creare questa cordiale persona che parla di questo grande parco, immerso nella campagna alle porte di Santena. Dalla statale, che in un susseguirsi di brutti edifici e capannoni commerciali porta a Porino e molto oltre ad Alba, non è possibile scorgere il cancello che chiude questo angolo di pace, popolato di alberi centenari, radure e piccoli specchi d'acqua. Il castello è un parallelepipedo di mattoni, ingentilito da numerose finestre su tre ordini di piani. Sono tutte chiuse, l'edificio non è visitabile. Seguiamo il gruppo che si sposta verso un piccolo laghetto naturale a forma di virgola, con un isolotto al centro. Sul percorso, in lontananza, si scorge il fusto spezzato della quercia centenaria che, possente, punta ancora verso il cielo il suo tronco sbrecciato. Un albero importante,  censito tra gli alberi storici del Piemonte. E' morto, l'espressione cela un rimpianto profondo, come quello che si riserva per le persone care che non sono più, qualche anno fa, preda di parassiti e del tempo.... E pensare che per anni, prima che tutta l'area fosse recintata, aveva resistito agli assalti domenicali di orde di gitanti, che all'ombra delle sue fronde, allestivano puzzolenti grigliate carnivore. Consola vedere adesso, che tutt'intorno stanno nascendo esili querciole da cui tra decine di lustri nascerà forse una figlia dominante. Si chiama Laura la nostra guida, erede dei Sambuy. Le chiedo quanto nella sua educazione ha contato la vita dei suoi avi. Nei secoli più vicini a noi fino alla fine del diciannovesimo secolo il culto degli avi rafforzava una visione e un sentimento della famiglia che avevano un significato ampio e profondo: la percezione di formare una casata che univa i suoi mmbri in una lunga catena di generazioni... Questo si legge nel bel libro di Anthony Cardoza sulla nobiltà piemontese dell'800. La disillusione e il disorientamento che fan seguito alla prima guerra mondiale, recisero molti dei legami che mettevano le giovani generazioni in contatto col loro passato. La Sig.ra Laura mi conferma questo assunto. Lei stessa, per esempio, ha avuto come figura di riferimento il trisnonno Ernesto Balbo Bertone, personaggio di poliedrici interessi. Di lui rimane oltre che l'essere stato sindaco della città di Torino, un bel diario di viaggio  (1861-1862)  nell'Iraq ottomano alla ricerca di cavalli di razza. L'autore, tra l'altro si dimostrò, con i numerosi disegni che descrivono l'anno di avventure, un discreto illustratore. La vicenda umana del trisnonno, per la giovane discendente, non si è inserita però in una metodica educazione dottrinaria come avveniva un tempo. E' soltanto un frammento di una memoria familiare spogliata di ogni intento celebrativo. La passeggiata nel parco intanto continua. Mi chiedo, cammin facendo, quanto grande deve essere l'impegno finanziario, oltre quello di tempo, per mantenere vivo questo grande spazio verde. La visita, è ormai passata un'ora abbondante, si conclude nelle cascine che si incontrano sulla destra del viale di accesso al Castello. Sono uno spazio storicamente interessante perchè costituiscono uno dei pochi nuclei originali di tessuto feudale (Castello, parco, stalle, cascine) soppravvissuti in Italia. La ristrutturazione è stata condotta con i più moderni presidi tecnici, nel rispetto scrupoloso dell'ambiente (centrale termica e uso studiato di materiali). Dei contadini, che hanno in uso parte della proprietà agricola, stanno lavorando in un angolo dell' immensa corte. Un semplice cartello "Vendita di asparagi" ci riporta alla vita di ogni giorno, lontani dai fasti di antiche nobiltà.
Salutiamo, lasciando dietro di noi questo interessante frammento di storia che da quasi 800 anni continua sotto le spoglie della famiglia Sambuy.


La grande quercia: vestigia

Il castello, visto dal parco


La Stampa 17 Dicembre 1926                                        Ai tempi di Sambuy
Vi sono ancora a Torino dei vecchi nostalgici, un po' brontoloni, che sovente con un vago gesto di rimpianto si richiamano ai tempi del sindaco Sambuy. E nulla pare loro bello, nulla par loro nobile abbastanza, se pensano a quell' epoca ormai lontana; forse oggi però gioiranno nella speranza che si riprenda una tradizione squisitamente torinese. E cosi sia! Poveri vecchi hanno ragione: ai tempi del sindaco Ernesto di Sambuy, Torino cominciò davvero a diventare una grande città: si fece più bella, più ampia, respirò con più vasti polmoni e con più vasti giardini e, senza rinunciare in nulla al suo carattere gelosamente cittadino, si affermò metropoli in un ordinato e disciplinato senso di operosità: oggi Torino è certo ancora assai più grande di allora, ma è certo meno... torinese! Nostalgie del passato, necessità fatali del presente... E chi non lo ricorda, l'indimenticabile sindaco Sambuy, se ebbe la fortuna di vederlo? Quando, ad esempio, stretto nell'impeccabile taglio della redingote, col cilindro sul capo dalla faccia un poco magra a linee marcate, incorniciata nell'ampia barba, guidava dall'alto, con mano ferma ed inguantata, la quadriglia scalpitante... Di ritorno dalle corse? Sì dalle corse, da Mirafiori, dove in gara i cavalli della sua bella scuderia avevano portato alla vittoria i colori della sua casacca. Oh, come ci prende talora la nostalgia dei bei ritorni d'un tempo! Quando non c'erano automobili, ma invece le pariglie e le quadriglie erano innumerevoli, quando le belle signore non avevano i capelli tagliati, quando gli ufficiali non erano in grigioverde, ed i gentiluomini amanti dello sport portavano ancora il cilindro e l'abito color gris-perle! E come accorreva la borghesia ed il popolo a vedere i bei ritorni, il giro delle carrozze, e come l'un l'altra le donnette si indicavano gli equipaggi, sussurrando qualche pettegolezzo bonario, come si usava allora!
“T’vde cóla quadriqlia— La pi bela d' tute? — Sfidò mi! A l'e cóla d’ sindich Sambuy!”
Se teneva in pugno con tanta forza le redini dell'impaziente quadriglia, moderandone la generosa corsa secondo la necessità del frequentatissimo giro, se si alzava perfino in piedi, tutti dominando coll'alta statura e raccoglieva le briglie nel pugno sicurissimo, mentre i cavalli s'impennavano sbuffanti; doveva pur sapere guidare la città con mano ugualmente ferma, doveva pure essere il miglior primo cittadino torinese che si potesse allora trovare. E tale fu davvero con energia equilibratissima, con volontà illuminata, con infinito amore per la sua città! La quale aveva bisogno, nella difficile ora. proprio di un uomo come lui. Erano i tempi delle primi crisi finanziarie che colpirono Torino, non abituata nella sua risparmiatrice onestà, i perturbamenti delle sfrenate e rischiose speculazioni; erano i tempi in cui si esaltavano le nuove costruzioni risanatrici di Roma e Napoli; e Torino, colpita da molti dissesti e fallimenti, Invece più non osava allargare le ali nel suo volo di progresso. Eppure il successo della esposizione del 1884 aveva messo nel sangue dei torinesi bògianen il fervore delle costruzioni grandiose, il desiderio delle vaste arterie pulsanti di vita, dei parchi amplissimi, dove i bimbi potessero giuocare nel sole e i pensionati passeggiare fino alla stanchezza. Ci voleva un uomo che avesse l'energia di imprimere un deciso movimento in avanti al progresso della città, che sapesse conservarle, col buon gusto innato del gentiluomo di razza, il suo carattere tradizionale, e riuscisse nello stesso tempo col prestigio della persona e del nome a far ricomparire i capitali che per il panico si erano prudentemente ritirati nell'ombra. Quell'uomo fa Ernesto di Sambuy, sotto il cui sindacato, a cominciare dal 1883, Torino diventò più bella e sopratutto più pulita: i vecchi mi po' brontoloni, nostalgici, indicando oggi con la mano già tremula gli asfalti di recente istituzione, osservano col salito col tono di rimpianto:  “Men lucide le strà  aieru, ma pi pulide” Ed in realtà hanno ragione perché il  sindaco Sambuy girava personalmente le strade per esser sicuro che anche gli spazzini eseguissero intero il loro dovere. Ma come fare a tener pulita allora quella parte vecchissima della città compresa tra la via Santa Teresa e le piazze Castello e San Giovanni? In quel dedalo di stradette e di vicoli, tra innumeri catapecchie malfamate, dai cortili oscuri, dai balconcini di legno traballanti, non era possibile alcuna pulizia materiale; ci voleva piuttosto una energica pulizia morale, un risanamento totale che tutto spianasse al suolo per ricostruire su più vaste arterie un quartiere nuovissimo. Forse sarebbe andata cosi perduta qualche singolare pennellata di colore; forse sarebbe scomparsa qualche piccola corte dei miracoli; forse le carceri avrebbero dovuto accogliere qualche inquilino di più; ma in compenso di notte, nei pressi di piazza Castello e di via Garibaldi, i portafogli sarebbero stati più sicuri nelle tasche disoneste persone. Ed Ernesto di Sambuy si fissò nella mente un suo programma edilizio e volle, fermamente volle, che il Municipio lo realizzasse. Più d'una volta battè i pugni con forza, nella sala del Consiglio, per imporsi alle prime ideologie democratiche che chiamavano improduttive tutte le spese che non piacevano ai nuovi tribuni del popolo; più d'una volta trascinò coll'esempio i colleghi amministratori, già titubanti davanti al fantasma della rivoluzione sociale. Ma riuscì nel suo intento e vide aperte al pubblico le due diagonali di via Pietro Micca e via Quattro Marzo. Si allargarono intanto anche via Genova, via XX Settembre, e tra via Nizza e il Valentino crebbe modernamente il quartiere di S. Salvario: una nuova vita insomma per Torino, un più vasto respiro di modernità, che si affermò specialmente nella sistemazione dei pubblici giardini e del Valentino su tutti, arricchitosi di nuovi viali sino alla sponda sussurrante del Po, dove si ergeva da pochi anni la poetica rievocazione medioevale del Castello. Fu quella l'età d'oro degli architetti torinesi e durò anche quando il conte di Sambuy non era più sindaco: il Riccio disegnò il progetto della Galleria Nazionale che nel 1889 congiunse via Roma con via XX Settembre, e l'anno appresso un nuovo parziale risanamento si ottenne coll'apertura della Galleria Umberto I, che mise in comunicazione la via Basilica con piazza Emanuele Filiberto. Intanto il conte Ceppi, il D'Andrade, il Cerosa etc. senza posa studiavano nuovi abbellimenti architettonici per Torino monumentale. A tutti, col suo signorile buon gusto aveva dato lo spunto il sindaco di Sambuy, quello che presso il popolo era già diventato tradizionale per le sue innumerevoli fortunate iniziative e degno della canzone fiorente su tutte le bocche come un'affettuosa benedizione. Ed il patrizio geniale non si stancava mai: alle otto del mattino entrava già nel suo ufficio per aver tempo di pensare a tutto e di escogitare ancora qualcosa di nuovo, di bello, di utile per la città, che pulsava ormai di rinnovate fattive energie. Cose grandi e cose piccole, opere di bellezza ed opere di bontà! Si disseminavano per Torino gli asili d'infanzia e sorgeva la Federazione degli asili suburbani; si istituivano le prime colonie alpine, gli asili pei lattanti, ed il ginnasio ricreativo Genero, su nella verde e sana collina Torino bella, Torino elegante, Torino buona: ecco il triplice sogno del sindaco e del benemerito cittadino Ernesto di Sambuy, un sogno che diventò in molte parti realtà. Egli era discendente di una illustre famiglia, amava la tradizione che gli avevano insegnato i suoi vecchi, ma sentiva tutte le necessità di un'era moderna: in lui anzi cosi genialmente si compenetrarono il passato ed il presente, che Torino riuscì a ringiovanirsi quasi di colpo senza nulla perdere tuttavia del suo carattere onesto, raccolto, operoso. Fu il conte di Sambuy che dette il primo notevole impulso industriale alla nostra città, ma all'industria volle che fosse conservato il sigillo piemontese: e cosi non venne industrializzata' Torino, ma piuttosto piemontesizzata l'industria... Ma gli anni passarono e passò anche il sindaco Sambuy: prima nel 1886 abbandonò il palazzo comunale per non piegare la sua autocrazia benefica alle torbide necessità democratiche; poi più tardi non si vide più nemmeno per le vie della città la sua alta, nobilissima figura. Scomparve, ma tutta la cittadinanza volle portargli un fiore di compianto: Torino aveva perso il suo vero sindaco, il sindaco operoso, decorativo, elegante, nobile, forte, atto a comandare per il bene dei suoi amministrati, atto a rappresentare la città In una immagine di energica bellezza, pronto ad abbattere tutto quanto di brutto ancora sorgesse fra il Po e la Dora!... Sono passati ormai molti anni e la tradizione oggi si riprende. Torna il sindaco Sambuy col nome augurale di Podestà, col nome che simboleggia le fortune comunali di una lontana epoca di gloria. Torna in un'ora italiana di forza, in cui tutto si può osare per la maggior fortuna della Patria grande e per la prosperità della Patria piccola che ci ha visto nascere nel più breve cerchio delle sue mura. La tradizione si riprende, ed i vecchi nostalgici, un po' brontoloni, possono atteggiare ormai i volti rugosi ad un'ombra di sorriso: tornano per Torino i tempi del conte di Sambuy!
LUIGI COLLINO

PS: Mi è capitato tra le mani la fotocopia di un libro che anni fa avevo rinvenuto sul web. E' il Journal d'un diplomate en Italie, di Henry d'Ideville, Turin, 1859-1862
Al capitolo XXI, pag 204, si legge un breve resoconto di una gita in campagna nel settembre 1861. Sceso alla stazione di Cambiano dopo un viaggio di un'ora, l'autore giunge alla proprietà di Ernesto Bertone di Sambuy e subito si meraviglia della grandiosità dei viali di accesso al castello. Dalle finestre, orientate a mezzogiorno, lo sguardo spazia sulla catena alpina, il parco gli ricorda le rive della Loira e lo Yorkshire....   La descrizione finisce con la visita del vicino castello di Santena e alla cripta dove sono i resti di Camillo Cavour.