Salutiamo, lasciando dietro di noi questo interessante frammento di storia che da quasi 800 anni continua sotto le spoglie della famiglia Sambuy.
La grande quercia: vestigia
Il castello, visto dal parco
La Stampa 17 Dicembre 1926 Ai tempi di Sambuy
Vi sono ancora a Torino dei
vecchi nostalgici, un po' brontoloni, che sovente con un vago gesto di
rimpianto si richiamano ai tempi del sindaco Sambuy. E nulla pare loro bello,
nulla par loro nobile abbastanza, se pensano a quell' epoca ormai lontana;
forse oggi però gioiranno nella speranza che si riprenda una tradizione
squisitamente torinese. E cosi sia! Poveri vecchi hanno ragione: ai tempi del
sindaco Ernesto di Sambuy, Torino cominciò davvero a diventare una grande
città: si fece più bella, più ampia, respirò con più vasti polmoni e con più
vasti giardini e, senza rinunciare in nulla al suo carattere gelosamente
cittadino, si affermò metropoli in un ordinato e disciplinato senso di
operosità: oggi Torino è certo ancora assai più grande di allora, ma è certo
meno... torinese! Nostalgie del passato, necessità fatali del presente... E chi
non lo ricorda, l'indimenticabile sindaco Sambuy, se ebbe la fortuna di
vederlo? Quando, ad esempio, stretto nell'impeccabile taglio della redingote,
col cilindro sul capo dalla faccia un poco magra a linee marcate, incorniciata
nell'ampia barba, guidava dall'alto, con mano ferma ed inguantata, la
quadriglia scalpitante... Di ritorno dalle corse? Sì dalle corse, da Mirafiori,
dove in gara i cavalli della sua bella scuderia avevano portato alla vittoria i
colori della sua casacca. Oh, come ci prende talora la nostalgia dei bei
ritorni d'un tempo! Quando non c'erano automobili, ma invece le pariglie e le
quadriglie erano innumerevoli, quando le belle signore non avevano i capelli
tagliati, quando gli ufficiali non erano in grigioverde, ed i gentiluomini
amanti dello sport portavano ancora il cilindro e l'abito color gris-perle! E
come accorreva la borghesia ed il popolo a vedere i bei ritorni, il giro delle
carrozze, e come l'un l'altra le donnette si indicavano gli equipaggi,
sussurrando qualche pettegolezzo bonario, come si usava allora!
“T’vde cóla quadriqlia— La pi bela d' tute? — Sfidò mi! A l'e cóla d’
sindich Sambuy!”
Se teneva in pugno con tanta
forza le redini dell'impaziente quadriglia, moderandone la generosa corsa
secondo la necessità del frequentatissimo giro, se si alzava perfino in piedi,
tutti dominando coll'alta statura e raccoglieva le briglie nel pugno
sicurissimo, mentre i cavalli s'impennavano sbuffanti; doveva pur sapere
guidare la città con mano ugualmente ferma, doveva pure essere il miglior primo
cittadino torinese che si potesse allora trovare. E tale fu davvero con energia
equilibratissima, con volontà illuminata, con infinito amore per la sua città!
La quale aveva bisogno, nella difficile ora. proprio di un uomo come lui. Erano
i tempi delle primi crisi finanziarie che colpirono Torino, non abituata nella
sua risparmiatrice onestà, i perturbamenti delle sfrenate e rischiose
speculazioni; erano i tempi in cui si esaltavano le nuove costruzioni
risanatrici di Roma e Napoli; e Torino, colpita da molti dissesti e fallimenti,
Invece più non osava allargare le ali nel suo volo di progresso. Eppure il
successo della esposizione del 1884 aveva messo nel sangue dei torinesi bògianen il fervore delle costruzioni grandiose, il desiderio
delle vaste arterie pulsanti di vita, dei parchi amplissimi, dove i bimbi
potessero giuocare nel sole e i pensionati passeggiare fino alla
stanchezza. Ci voleva un uomo che avesse l'energia di imprimere un deciso
movimento in avanti al progresso della città, che sapesse conservarle, col buon
gusto innato del gentiluomo di razza, il suo carattere tradizionale, e
riuscisse nello stesso tempo col prestigio della persona e del nome a far
ricomparire i capitali che per il panico si erano prudentemente ritirati
nell'ombra. Quell'uomo fa Ernesto di Sambuy, sotto il cui sindacato, a
cominciare dal 1883, Torino diventò più bella e sopratutto più pulita: i vecchi
mi po' brontoloni, nostalgici, indicando oggi con la mano già tremula gli
asfalti di recente istituzione, osservano col salito col tono di rimpianto: “Men lucide
le strà aieru, ma pi pulide” Ed in
realtà hanno ragione perché il sindaco
Sambuy girava personalmente le strade per esser sicuro che anche gli spazzini
eseguissero intero il loro dovere. Ma come fare a tener pulita allora quella
parte vecchissima della città compresa tra la via Santa Teresa e le piazze
Castello e San Giovanni? In quel dedalo di stradette e di vicoli, tra innumeri
catapecchie malfamate, dai cortili oscuri, dai balconcini di legno traballanti,
non era possibile alcuna pulizia materiale; ci voleva piuttosto una energica
pulizia morale, un risanamento totale che tutto spianasse al suolo per
ricostruire su più vaste arterie un quartiere nuovissimo. Forse sarebbe andata
cosi perduta qualche singolare pennellata di colore; forse sarebbe scomparsa
qualche piccola corte dei miracoli; forse le carceri avrebbero dovuto
accogliere qualche inquilino di più; ma in compenso di notte, nei pressi di
piazza Castello e di via Garibaldi, i portafogli sarebbero stati più sicuri
nelle tasche disoneste persone. Ed Ernesto di Sambuy si fissò nella mente un
suo programma edilizio e volle, fermamente volle, che il Municipio lo
realizzasse. Più d'una volta battè i pugni con forza, nella sala del Consiglio,
per imporsi alle prime ideologie democratiche che chiamavano improduttive tutte
le spese che non piacevano ai nuovi tribuni del popolo; più d'una volta
trascinò coll'esempio i colleghi amministratori, già titubanti davanti al
fantasma della rivoluzione sociale. Ma riuscì nel suo intento e vide aperte al
pubblico le due diagonali di via Pietro Micca e via Quattro Marzo. Si
allargarono intanto anche via Genova, via XX Settembre, e tra via Nizza e il
Valentino crebbe modernamente il quartiere di S. Salvario: una nuova vita
insomma per Torino, un più vasto respiro di modernità, che si affermò
specialmente nella sistemazione dei pubblici giardini e del Valentino su tutti,
arricchitosi di nuovi viali sino alla sponda sussurrante del Po, dove si ergeva
da pochi anni la poetica rievocazione medioevale del Castello. Fu quella l'età
d'oro degli architetti torinesi e durò anche quando il conte di Sambuy non era
più sindaco: il Riccio disegnò il progetto della Galleria Nazionale che nel
1889 congiunse via Roma con via XX Settembre, e l'anno appresso un nuovo
parziale risanamento si ottenne coll'apertura della Galleria Umberto I, che
mise in comunicazione la via Basilica con piazza Emanuele Filiberto. Intanto il
conte Ceppi, il D'Andrade, il Cerosa etc. senza posa studiavano nuovi
abbellimenti architettonici per Torino monumentale. A tutti, col suo signorile
buon gusto aveva dato lo spunto il sindaco di Sambuy, quello che presso il
popolo era già diventato tradizionale per le sue innumerevoli fortunate
iniziative e degno della canzone fiorente su tutte le bocche come un'affettuosa
benedizione. Ed il patrizio geniale non si stancava mai: alle otto del mattino
entrava già nel suo ufficio per aver tempo di pensare a tutto e di escogitare
ancora qualcosa di nuovo, di bello, di utile per la città, che pulsava ormai di
rinnovate fattive energie. Cose grandi e cose piccole, opere di bellezza ed
opere di bontà! Si disseminavano per Torino gli asili d'infanzia e sorgeva la
Federazione degli asili suburbani; si istituivano le prime colonie alpine, gli
asili pei lattanti, ed il ginnasio ricreativo Genero, su nella verde e sana
collina Torino bella, Torino elegante, Torino buona: ecco il triplice sogno del
sindaco e del benemerito cittadino Ernesto di Sambuy, un sogno che diventò in
molte parti realtà. Egli era discendente di una illustre famiglia, amava la
tradizione che gli avevano insegnato i suoi vecchi, ma sentiva tutte le
necessità di un'era moderna: in lui anzi cosi genialmente si compenetrarono il
passato ed il presente, che Torino riuscì a ringiovanirsi quasi di colpo senza
nulla perdere tuttavia del suo carattere onesto, raccolto, operoso. Fu il conte
di Sambuy che dette il primo notevole impulso industriale alla nostra città, ma
all'industria volle che fosse conservato il sigillo piemontese: e cosi non
venne industrializzata' Torino, ma piuttosto piemontesizzata l'industria... Ma
gli anni passarono e passò anche il sindaco Sambuy: prima nel 1886 abbandonò il
palazzo comunale per non piegare la sua autocrazia benefica alle torbide
necessità democratiche; poi più tardi non si vide più nemmeno per le vie della
città la sua alta, nobilissima figura. Scomparve, ma tutta la cittadinanza
volle portargli un fiore di compianto: Torino aveva perso il suo vero sindaco, il
sindaco operoso, decorativo, elegante, nobile, forte, atto a comandare per il
bene dei suoi amministrati, atto a rappresentare la città In una immagine di
energica bellezza, pronto ad abbattere tutto quanto di brutto ancora sorgesse
fra il Po e la Dora!... Sono passati ormai molti anni e la tradizione oggi si
riprende. Torna il sindaco Sambuy col nome augurale di Podestà, col nome che
simboleggia le fortune comunali di una lontana epoca di gloria. Torna in un'ora
italiana di forza, in cui tutto si può osare per la maggior fortuna della
Patria grande e per la prosperità della Patria piccola che ci ha visto nascere
nel più breve cerchio delle sue mura. La tradizione si riprende, ed i vecchi
nostalgici, un po' brontoloni, possono atteggiare ormai i volti rugosi ad
un'ombra di sorriso: tornano per Torino i tempi del conte di Sambuy!
LUIGI COLLINO
PS: Mi è capitato tra le mani la fotocopia di un libro che anni fa avevo rinvenuto sul web. E' il Journal d'un diplomate en Italie, di Henry d'Ideville, Turin, 1859-1862
Al capitolo XXI, pag 204, si legge un breve resoconto di una gita in campagna nel settembre 1861. Sceso alla stazione di Cambiano dopo un viaggio di un'ora, l'autore giunge alla proprietà di Ernesto Bertone di Sambuy e subito si meraviglia della grandiosità dei viali di accesso al castello. Dalle finestre, orientate a mezzogiorno, lo sguardo spazia sulla catena alpina, il parco gli ricorda le rive della Loira e lo Yorkshire.... La descrizione finisce con la visita del vicino castello di Santena e alla cripta dove sono i resti di Camillo Cavour.
LUIGI COLLINO
PS: Mi è capitato tra le mani la fotocopia di un libro che anni fa avevo rinvenuto sul web. E' il Journal d'un diplomate en Italie, di Henry d'Ideville, Turin, 1859-1862