domenica 29 ottobre 2017

Giacomo Grosso, l'immorale...

I fatti sono noti a chi conosce bene il pittore di Cambiano. Tutto nacque con la presentazione all'Esposizione di Venezia del 1895 del quadro Supremo convegno. In questa tela un cadavere è disteso in una bara aperta ed è circondato e sovrastato da donne nude. Sono femmine che un tempo da vivo gli procurarono piacere e che ora lo attorniano in un simbolico «supremo convegno». Il fatto che la scena si svolga apparentemente in una chiesa immersa nella penombra suscitarono l’immediata levata di scudi di quella parte di contemporanei sempre attenta a limitare la visione di tutto ciò che poteva turbare o ledere la loro sacrosanta morale cristiana. La richiesta di non presentare l’opera fu respinta a seguito del giudizio positivo di una commissione all’uopo istituita. Della stessa faceva parte Fogazzaro che, pur fervente cattolico, così  giustificò il suo giudizio: «Le nudità del «Supremo Convegno» in quell'atto, in quel luogo, mi parvero dover produrre una impressione profondamente morale. Nell'arte il nudo ha diversi linguaggi […]. Le femmine del «Supremo Convegno» sono apparse alla fantasia dell'artista in un'alta e tragica ispirazione e la loro nudità bestialmente ostentata, orribilmente profanatrice, ha un alto, tragico linguaggio. Il viso del morto, le membra delle vive, voglion dire e dicono con efficacia terribile le colpe e castighi di una passione tutta brutale». Il patriarca di Venezia però fu di tutt’altro avviso e rivolse al clero veneziano la preghiera, equivalente a proibizione assoluta, che nessun sacerdote visitasse la Mostra fino a tanto che fosse esposta quella tela. Inoltre fu pubblicato nelle sagrestie un avviso col quale si ricordava a tutti i preti forestieri la proibizione fatta ai sacerdoti del patriarcato. Elisabetta d'Austria, da gran dama qual'era, lo volle vedere. Pare che sorridendo avesse esclamato: soprattutto ci son troppi fiori.... Di tutt'altro avviso la nostra Regina Margherita che pare non volle guardarlo: l'episodio sembra però smentito secondo quanto riportato da La Stampa.
E' dell'ottobre 1895 la notizia, sempre su La Stampa di Torino, che il quadro è stato acquistato dalla The Venice Art Company per conto di un grande negoziante di Chicago per la somma di 15mila dollari. Numerose furono le richieste di esposizione da parte di gallerie inglesi e tedesche, richieste che però rimasero sulla carta.
Nel dicembre del 1900 sembrò che i fulmini verbali del patriarca di Venezia, il futuro papa Pio X, centrassero il bersaglio. Come riporta il quotidiano newyorchese il Progresso ItaloAmericano, il quadro, esposto da 2 mesi a Broadway in un vecchio fabbricato affittato per l’occasione e arredato con drappi di velluto, viene distrutto da un incendio partito proprio da una delle numerose cortine di stoffa. Due inservienti rimasero gravemente ustionati nel tentativo di spegnimento delle fiamme. Il dipinto non si potè comunque recuperare. Si concluse così nel fuoco l’esistenza di questa sfortunata opera d’arte  e chissà quante pie menti non videro nell’evento la mano implacabile della giustizia divina!
Uno strascico della vicenda si ebbe due anni più tardi quando nella chiesa di San Gioacchino davanti alla stazione della Torino-Cirié, costruita su disegni dell'architetto Ceppi, allo pareti delle due navate laterali fu lasciato lo spazio per dipingere, in tanti quadri di circa venti metri quadrati l'uno, tutte le stazioni della Via Crucis. Due opere furono affidate al Grosso che però potè solo dipingerne tre mezze figure per via di tanti altri impegni che aveva per le mani. La diffida del parroco arrivò puntuale. Non avendo il Grosso ottemperato all'impegno, i suoi servigi erano da ritenersi conclusi. Furono inoltre sempre dal parroco mosse critiche per via del fatto che la croce e la figura del Cristo erano troppo piccini e non campeggiavano com'era suo desiderio. A nulla servì la mediazione dell’industriale donatore e di altre persone. Quando il Grosso si recò per ultimare l'opera sua non trovò neanche più il palco su cui salire: era stato tempestivamente rimosso dall’inflessibile parroco. Scrive il giornalista della Stampa: “Noi non vogliamo credere, come fu bisbigliato sulle prime, che la deliberazione e l'atto ostile siano stati fatti in odio al pittore del Supremo convegno e della Nuda.“ Il pittore venne quindi citato in giudizio dall'animoso parroco che vincendo la causa, ottenne un rimborso di 500 lire. Nel giugno 1898 un articolo della Stampa riporta che il dipinto "si sta distruggendo" e che si è provveduto a chiamare da Bergamo un pittore in grado di riaffrescare la parete. Non è chiaro nell'articolo cosa si intendesse per questa apparente autodistruzione dell'opera.  
La riabilitazione avvenne anni dopo quando nel 1918 in Vaticano Giacomo Grosso eseguì il ritratto del Pontefice Benedetto XV opera dallo stesso molto apprezzata.
C’è da notare come alcune opere del nostro come pure alcuni luoghi in cui esse erano conservate ebbero in tragiche circostanze una fine ingloriosa soprattutto legata ad incendi. Oltre al Supremo Convegno in cenere finirono gli affreschi del soffitto del Teatro Regio a Torino e pure quelli di San Gioacchino nel 1943 in occasione dei bombardamenti alleati alla città. Singolare destino davvero!
Post scriptum: come in tutte le vicende misteriose che si rispettino, non mancano le notizie contraddittorie a proposito della fine del dipinto. Un articolo di Repubblica del 1995 riporta che il quadro fu venduto e collocato in un castello in Provenza dove in seguito bruciò…
Altri riportano che la distruzione avvenne durante la traversata in mare verso l’ America.
In un altro articolo viene riportata la possibilità di vedere quel che resta del dipinto in questione “bruciato in parte”


Il quadro nell'Esposizione veneziana del 1895

domenica 15 ottobre 2017

La casa in campagna




La casa sorge lungo la ferrovia che porta in Francia. Un tempo, in verità lontano, c'era un passaggio a livello. I treni erano frequenti per cui il suono scampanellante delle barriere a righe bianche e rosse che si abbassavano ogni ora era una costante sia di giorno che, meno frequentemente, di notte. Prima della sua costruzione,  nel 1954, al posto della casa c’era un grande prato con un lavatoio ad uno degli angoli. Le due grandi vasche erano alimentate da un flusso continuo d'acqua. Acqua dal sapore metallico sempre fresca. Con quell’acqua mi bagnavo i capelli quando tornavo sudato dalle scorribande in montagna in genere non molto lontano perché l’area dei miei vagabondaggi era ristretta. Sotto il lavatoio scorreva la bialera, già in quegli anni lontani un inutile canaletto d’acqua corrente che non serviva neanche più ad irrigare gli orti. Molte furono le estati che trascorsi in quella casa, assistendo ai riti paesani che vedevano  a metà luglio l'arrivo della grande trebbiatrice arancione e poco dopo quello degli autoscontri e giostre per la festa dell'Assunta di metà agosto. Celentano cantava "Ora sei rimasta sola", Rita Pavone "Alla mia età". Era estati lunghe e solitarie. La noia accompagnava i lunghi pomeriggi di sole, ma era una noia accettata con serena rassegnazione. Pochi gli amici, molta fantasia nel pensare sempre nuovi giochi. I compiti per le vacanze un fastidioso impegno da portare a termine il più presto possibile. Il futuro non esisteva. L'abbandono dei soggiorni estivi nella casa di campagna avvenne gradualmente a iniziare dal 1966 quando, quindicenne, iniziai a diradare le "salite" (si diceva infatti "Vado "su" a Bussoleno). La casa era stata voluta da mio padre: doveva diventare un luogo di ritiro e di riposo, lì avrebbe dovuto stabilirsi una volta andato in pensione. Gli ultimi 20 anni della sua vita invece lo videro sempre pendolare tra la città e  la campagna, viaggi sempre in ferrovia (non aveva mai voluto prendere la patente), aperture e chiusure delle due case, trasporto pendolare di masserizie e cibi. Sia mio padre che mia madre sono morti in questa casa.
Negli anni essa ha subito un costante degrado, gli scalini in graniglia della veranda si sono sbriciolati e qua e là albergano piantine di erbe infestanti. In giardino l'erba è cresciuta fino a cancellare le aiuole e lo stretto passaggio, lungo la cancellata, che regolarmente si ricopriva di migliaia di aghi del maestoso pino cresciuto incontrollatamente nel giardino. Ho dovuto lentamente separarmi da tanti oggetti, oggetti che negli anni si erano sedimentati in fondo agli armadi, nei cassetti e in cantina. Per lo più cose inutili, scritti, libri di scuola quaderni, giocattoli, depliants... una lista infinita di piccole cose con ogni singolo pezzo a ricordare un anno particolare, un periodo distinto della mia vita (all'università, al liceo e poi sempre più indietro fino ai primi anni 50 quando casa voleva dire soprattutto corso Ferrucci, nella grande città). Ho dovuto gettar via molte cose. Cose che giacevano da anni, decenni ignorate e poi per una manciata di secondi riprendevano vita, tornavano a collocarsi per incanto in un tale anno, in una tale epoca della mia vita. Non sono mai riuscito a non colorare di emozioni oggetti semplici e inutili ritrovati per caso. Per cui ogni volta che ho dovuto separarmi da qualcosa, era con un certo momento, con un qualche ricordo che dovevo fare i conti e non con una macchinina senza ruote o con un soldatino senza più una gamba.
Bussoleno paese è un luogo privo di fascino che negli anni amministratori senza fantasia nè iniziative hanno reso ancora più desolato. Ma è anche luogo di memorie e tale resterà anche quando chiuderò per l'ultima volta la porta della mia casa e consegnerò le chiavi al nuovo proprietario. Lascerò quindi i miei tre alberi, il mostruoso pino che ormai incombe minaccioso sulla via e sulla casa, il melo che ha l'età di mio figlio e che non ha mai regalato un frutto che non fosse aspro e bacato. Poi dietro casa il nespolo che per anni ha lottato con un terreno sterile e ostile e che adesso è rigoglioso e generoso in piccoli frutti saporiti.

sabato 14 ottobre 2017

Mirò: ma questa è arte?

Premetto: non sono un appassionato di arte moderna ma nei tanti anni che mi han visto frequentatore di tantissimi musei in giro per l'Europa, ho apprezzato pur con una riserva mentale tante opere definite dai critici capolavori. Sarà pur vero che all'arte moderna devi essere introdotto, istruito e preparato. Non è arte figurativa di fronte a cui puoi porti nella maniera più umile e semplice possibile (mi piace/non mi piace). Nell'arte moderna il campo comunicativo si allarga. Intervengono reazioni quali "cosa significa? cosa ritrae? " che anche se sbagliate come approccio sono umanamente comprensibili. Intervengono pure reazioni affettivamente più complesse come irritazione (ma perchè perdo tempo a vedere questi imbrattatele) o autoreferenziali (questo schifo son capace anch'io di dipingerlo).
Tutto questo preambolo per dire che sono appena stato alla mostra su Mirò che si tiene a Palazzo Chiablese a Torino. Mai visita fu più veloce e inapprezzata. Conoscevo poco Mirò per averne visto riproduzioni e tele sparse qua e là nei vari musei. Così tante opere raggruppate in mostra non le avevo ancora viste. All'uscita mi son chiesto cosa ci fosse dietro la magnificazione di un simile artista. Sappiamo come da sempre i critici che contano possano creare  distruggere l'immagine di un artista tanto più se parliamo di arte moderna dove le fumose chiacchiere che puntellano una carriera o una serie di opere sono fondamentali. Ebbene in nessun quadro di Mirò son riuscito a cogliere il sublime graffio del genio. Scarabocchi mi son parsi, macchie di colore messo lì a caso (la famosa e per certi versi fuorviante "ispirazione") non un solo tratto che ti riveli l'artista che cova sotto i colori e i simboli. Anche Picasso ha dipinto quadri discutibili ma in lui anche il profano riesce a cogliere le stimmate dell'arte. Mirò no. E se vogliamo andare a quel volpone di Dalì che ha usato un marketing furbesco geniale, anche lui rivela non tanto nella logorroica fantasia quanto nel disegno una scuola non comune. Perchè è questo che io voglio riconoscere in un pittore, il tratto che supera il virtuosismo per trasformarsi in arte. Se non sai disegnare, detto terra terra, sei un imbrattatele al di là di quanto puoi aver avuto dagli onnipresenti critici. Forse il punto chiave di tutta l'arte moderna sta proprio nel fatto che è proprio che i quadri spesso non sono spiegabili razionalmente e il titolo non aiuta quasi mai. Viene comunque il sospetto che neanche al pittore è chiaro cosa ha dipinto. La fortuna di molti artisti moderni è stata quella di avere incontrato il favore della critica. Il connubio interessato/disinteressato, a seconda dei casi, tra critico e artista genera il successo dell'opera e la inserisce in un circuito di apprezzamenti universali. Ma ciò presta il fianco, ahinoi, a molti maliziosi scenari….