domenica 26 maggio 2013

Tre giorni a Lione: appunti di viaggio

Impressioni
Lione è piacevolmente moderna nei suoi quartieri nati negli anni '70 (Part Dieu) e fine '90 (Confluence) e tenacemente rivolta ad un antico passato a ridosso dei due grandi fiumi che la percorrono da nord a sud (Croix Rousse, Presque l'Ile e S. Jean-Fourvière). Ovunque si vada, domina il punto di riferimento costituito dalla Tour Part-Dieu soprannominata dai lionesi le Crayon per via della sua forma aguzza e del colore bruno. Ai suoi piani alti è installato un hotel a tre stelle che ultimamente non gode dei giudizi unanimi dei visitatori su pulizia e decoro, questo nonostante che dalle sue camere si possa godere di una vista sulla città, impareggiabile. 


Un soggiorno in città può avere come base il quartiere di Part-Dieu che oltre ad disporre di moltissimi hotel per tutte le tasche, ha vicino sia la stazione omonima sia il trenino delle linee Rhones-Express  che in meno di mezzora portano a Saint Exupéry (aeroporto e treno TGV per l'Italia). Il centro città dista due chilometri esatti che a piedi sono piacevolmente percorribili guardando il succedersi di "ere" architettoniche man mano che ci si appressa al centro: il moderno fine XX secolo, il periodo tra le due guerre che somiglia molto al nostro periodo del ventennio per giungere ormai in prossimità del Rodano ai palazzi di fine '800 maestosi e solidi testimoni di una borghesia in pieno sviluppo. La scelta di concentrare le visite dei vari spazi significativi della città è molto varia ma può proficuamente seguire tre direttive: una è quella relativa alla collina a Nord della Croix Rousse con le sue erte salite fino al meraviglioso murale di Rue Canuts, dove un muro di caseggiato di 1200 metri quadri è stato negli anni dipinto e ridipinto, per adeguarlo ai cambiamenti del quartiere (i personaggi sono stati invecchiati man mano che passavano i decenni!)


Questo in origine era il retro spoglio e squallido del grande edificio. Questo è diventato dopo l'intervento degli artisti della CitéCreation.....



 La seconda area cittadina che merita una visita è quella a ridosso della Saone sulla sua sponda destra. Qui con ripidissime scalinate di centinaia di gradini si può salire fino all'area verde della Fourvière dove una terribile chiesa ottocentesca di Notre Dame racchiude gli orrori concentrati di un eclettismo delirante (gli interni soprattutto). Vale al pena, arrivati lassù, di imboccare a piedi il percorso che ad inizio 900 compiva in meno di un chilometro un trenino funebre adibito al trasporto dei feretri. Il cimitero ottocentesco di Loyasse, infatti pur in splendida posizione, era difficilmente raggiungibile per strada con i cavalli. Singolare storia quella di questo luogo consacrato all'eterno riposo di illustri lionesi: esposto a venti furiosi, più volte era stato colpito da  eventi naturali tra cui il tornado del 1847. La natura stessa del terreno pare che avesse inoltre molto difficile la decomposizione dei corpi..... Prima di giungere al cimitero possiamo fermarci sul viadotto lugo 80 metri da cui è possibile scorgere un grande edificio adibito ad ospedale gerontologico fondato nell'800 dalla pia Jeanne Garnier ricca e giovane vedova che consacrò la sua vita alla cura ed accoglienza delle donne incurabili della città che a quei tempi venivano respinte da tutti gli ospedali: una piccola edicola alla fine del ponte ne racconta l'opera. Tornando a note più serene, il quartiere che fa capo a S.Jean in basso, è sede dei famosi traboules, specifica attrazione della città:  si tratta in sostanza di passaggi coperti che attraverso più case private uniscono due vie, interrotti spesso da cortili su cui affacciano scale aperte a volte elegantemente porticate.

Il terzo percorso si snoda attraverso la presque l'Ile racchiusa tra i due fiumi della città. A nord vale la pena di visitare il grande Museo di Belle Arti che anche senza capolavori dell'arte mondiale ha molte tele interessanti soprattutto  nell'ambito lionese dell'800.

Il Musée des Beaux Arts
Di tutte le opere del Musée de Baux Arts una in particolare mi ha colpito. E' La Lecture di Henri Fantin-Latour. In un interno due donne siedono ad un tavolo: una legge la mano sinistra elegantemente a sorreggere la guancia, l'altra di profilo sembra guardare con espressione assente un punto fuori dal quadro. I vestiti sobri, scuri, il semplice arredo ridotto all'essenziale, due sedie un tavolino coperto da una tovaglia e un vasetto di fiori, tutto riporta all'ispirazione realista ed intimista della composizione. Unico tocco singolare, la scriminatura dei capelli della donna che legge che porta l'attenzione dell'osservatore alla fronte ampia della protagonista.  


A Sud dopo aver attraversato l'enorme piazza Bellecour ed aver superato la stazione di Perrache resta da vedere il quartiere ultramoderno della Confluence....

La Confluence
Il territorio situato alla confluenza del Rodano con la Saone pur appartenendo geograficamente al cuore della città è stato per molti anni una zona industriale considerata da molti poco degna di un centro cittadino. E' da questa considerazione che nel 1999 nasce, sotto gli auspici del sindaco di allora Raymond Barre, il progetto di bonifica dei 150 ettari. In pochi anni nascono così edifici ad uso commerciale ed abitativo mentre a lungo termine si lavora ancora per modificare la cesura rappresentata dalla stazione di Lyon Perrache che di fatto divide ancora l'area dal centro vitale del centro città. Per arrivare alla confluenza infatti bisogna ancora attraversare le squallide "voutes" ossia le volte di tunnel che sostengono la piattaforma della stazione ferroviaria. 


Poco più in la bivaccano in permanenza i disperati senza dimora kossovari, rom, bulgari con le loro masserizie e le loro storie di miseria. Periodicamente vengono evacuati ed espulsi ma in breve tempo ritornano a popolare i corridoi e le pensiline sotto la stazione. 

Photo Philippe Juste (modif)


Superate le voutes un buon chilometro dopo, lungo la Saone dove un tempo si aprivano le banchine di Port Rambaud, inizia la serie impressionante di nuove costruzioni nate nell'ambito del progetto di riqualificazione territoriale.     





Percorrendo la banchina della Saone non si arriva a vedere la confluenza con il Rodano, ci si deve fermare in un curatissimo giardino di nuovo allestimento a ridosso del ponte ferroviario. Per vedere l'unione dei due grandi corsi d'acqua bisogna imboccare il ponte Pasteur e prendere la banchina sottostante.














martedì 21 maggio 2013

Torino nera: via Mazzini, anno 1912

Un gravissimo delitto scoperto dopo quattro mesi. Costringe con minaccia di morte l'amante ad avvelenarsi. L’arresto del colpevole.
La Stampa 16.3.1912 
In un letto della sezione Carle al S. Giovanni, giace da tre mesi una povera donna ancora in
giovane età. I medici, le suore, le infermiere che l'assistono, e le poche persone che si recano
a visitarla, si avvicinano al suo capezzale coll'animo velato e commosso da un senso di infinita
pietà. Poiché la disgraziata è votata inesorabilmente alla morte. Giorno per giorno il suo
organismo si consuma in una lotta atroce contro un nemico implacabile che la corrode
lentamente, martellandola, pungendola, attanagliandola minuto per minuto con la raffinata
crudeltà, di un tiranno chiuso ad ogni senso di umiltà. Il nemico è l'acido muriatico, che la
sventurata ha ingoiato in una fatale notte dello scorso novembre. Vedremo in quali drammatiche
circostanze. Eppure questo fragile corpo di donna, tanto barbaramente martoriato, ha saputo
conservare per quattro mesi, fra le pieghe dell'anima che ancora lo vivifica, un segreto terribile,
per non recare danno o pregiudizio al suo carnefice, a colui che con atto di inaudita barbarie le
aveva dato la morte attraverso allo sofferenze indescrivibili di una lunghissima e straziante agonia!
E indubbiamente la misera creatura avrebbe portato il segreto nella tomba se per un caso
fortuito la polizia non fosse venuta a conoscenza di una parte della verità terribile. Misteri
dell'anima umana! 
Il suo ingresso all'Ospedale 
Fu nella notte del 6 novembre verso le ore 4 che la povera donna fece il suo primo ingresso al
San Giovanni. Era accompagnata dall'amante, certo Bonino Giuseppe d'anni 38, meccanico da
Ivrea e da certa Cario Angela maritata Migliotti, una vicina di casa. Introdotta nella sala delle
medicazioni, fu subito attorniata dai sanitari ai quali narrò, fra singhiozzi strazianti, che poco
prima aveva ingoiato un liquido venefico di cui ignorava il nome. Mentre i sanitari si prestavano
a prodigarle i soccorsi del caso, la guardia di servizio procedette alla prescritta identificazione.
Alle domande rivoltele rispose: Sono Novaresio Clelia di anni 27, sarta, ed abito in via Mazzini
n. 44. Chiestole poscia perchè aveva ingoiato il veleno, rispose semplicemente: Perchè ero stanca
di vivere. La risposta, conforme a quella che danno il novanta per cento delle parsone che si
votano volontariamente alla morte, fu creduta veritiera. Nessuno pensò in quel momento di
scrutare il contegno dell'amante presente. Compiuta la lavatura dello stomaco, la misera fu
ricoverata nel Nosocomio e vi rimase per una quindicina di giorni, durante i quali il suo stato
parve migliorare alquanto. Era però un miglioramento fittizio, apparente. Il terribile veleno le
aveva concesso una breve tregua, ma le era rimasto nelle viscere, pronto a riprendere con
maggiore implacabilità la triste opera sua. Più disfatta, più sofferente, dovette richiedere
ospitalità, al Nosocomio; e lì rientrò il 18 dicembre. Questa volta fu ricoverata nella sezione Carle.
Dai sintomi, che ora erano più chiari ed evidenti, i medici dubitarono assai che il veleno che
la martoriava fosse il sublimato corrosivo, come prima si era creduto; ma ancora una volta la
donna interrogata su tale riguardo, rispose di ignorare di quale natura fosse il liquido ingoiato.
Giorno per giorno intanto le sue condizioni si andavano aggravando in causa della crescente
debolezza dovuta all'impossibilità di ricevere qualsiasi nutrimento. I sanitari pensarono allora
di nutrirla artificialmente, e provvidero alla bisogna mediante l'immissione di una sonda
attraverso ad un'incisione nell'addome. E così ancora oggi è nutrita la disgraziata creatura!
Durante le molte settimane della degenza, alcuni conoscenti si recarono al suo letto a recarle
la parola del conforto; ma non comparse mai l'amante, il Bonino. Egli — come si seppe di poi —
aveva lasciato Torino e si trovava a Nicastro in qualità di «chauffeur» presso il comm. Mauro.
Alla polizia nel frattempo era pervenuto fortuitamente, come abbiamo detto, un barlume della
verità che la donna aveva saputo, con tanto spirito di generosità, tacere. Impressionato dalla
notizia pervenutagli, per quanto frammentaria, il cav. Massera commissario della sezione di via
Giannone, volle subito approfondire le indagini, e insieme al delegato Olivazzi si recò senz'indugio
al S. Giovanni per interrogare la Novaresio. 
La vittima narra di essere stata costretta ad avvelenarsi!  
Alle prime domande rivoltele, la povera donna fissò i due funzionari come stupita che una parte
del s6uo segreto fosse conosciuto — Come l'hanno saputo? — interrogò a sua volta. Eh!la polizia
ha svariate fonti che la mettono, non sempre ma sovente, a conoscenza di quanto la gente vuol
nasconderle — rispose il commissario. Invitata poscia a dire tutta la verità, la donna si raccolse
per qualche istante in un affannoso silenzio, poscia incominciò, il suo terribile racconto dall'inizio,
incominciando delle sue tribolazioni. Circa, nova anni fa, quando era ancora giovanissima ed
inesperta della vita, essa conobbe un uomo che l'amò e nelle cui braccia essa si gettò
completamente fiduciosa. Frutto di tale relazione fu una bambina che ha ora otto anni e
convive con la mamma, o almeno è vissuta fino al giorno in cui la mamma dovette essere
ricoverata all'Ospedale. Passarono gli anni e giunse purtroppo anche un giorno triste, e
fu quello in cui l’amante volle riprendere intera la sua libertà ed abbandonò ai loto destini
madre e figlia pur restando a Torino ove fa il cameriere. Questa parte della narrazione forma
il preludio soltanto dell'odissea di guai della poveretta. La fase più burrascosa della sua
martoriata vita è venuta in seguito. La Novaresio continuò il suo triste racconto: — L'anno
scorso la cattiva sorte mi fece incontrare nel Bonino Giuseppe. Egli era vedovo, io ero libera
e ci unimmo maritalmente, nella mia abitazione in via Mazzini N. 44. Restammo insieme quattro
mesi e non furono, purtroppo, mesi di pace per me. Il Bonino era gelosissimo e lo dimostrava
con scene di inaudita violenza che mi terrorizzavano. Quanti giorni e quante notte di spasimo
abbiamo passato io e la bambina. Poi venne la notte fatale (quella del 6 novembre), il cui ricordo
mi fa tuttora rabbrividire. E la misera rabbrividì infatti: poi continuò: — Il Bonino è venuto a
casa quella sera col viso spaventosamente oscurato dall'ira; ed iniziò una delle solite scenate,
ma con un impeto di ferocia che ancora non conoscevo. Mi difesi come meglio seppi, ma lo
sciagurato non voleva udire ragioni, e non trovando nelle contumelie sufficiente sfogo all'ira,
mi percosse spietatamente. Ma nemmeno ciò valse a soddisfarlo. Ad un tratto egli afferrò un
rasoio e mi si gettò addosso terribile. Col coraggio della disperazione mi difesi come meglio
seppi: e sia per le mie grida, o sia per un baleno di pentimento che egli ebbe, si lasciò finalmente
disarmare; e poscia si calmò alquanto. Io approfittai di quel momento per nascondere l'arma nel
materasso, temendo che l'ira lo riprendesse. E non mi ero su questo punto ingannata. Lo
sciagurato dopo brevi istanti di semi-pace, risorse più terribile e minaccioso, e ghermitami di
nuovo pel collo gridò furente: «Voglio, voglio ucciderti!» Ebbi in quel momento l’impressione
che la mia ultima ora era giunta. Invece lo sciagurato improvvisamente mi lasciò ed avvicinatosi
ad un armadio prese una piccola bottiglia e me la porse. Io, a tutta prima non compresi. — Bevi!
— mi gridò imperiosamente il furfante- altrimenti ti uccido. Ma cosa c’è li dentro- domandai
timidamente. Non fare domande: bevi! — ripetè lui. — In quel momento non seppi comprendere
la gravità dall'atto che mi si chiedeva e sotto il dominio della minaccia mi appressai alle labbra
la bottiglia e ingoiai 11 liquido che conteneva. 
Le terribili sofferenze 
Il Bonino assistè all'atto, impassibile. Parve finalmente soddisfatto del sacrificio supremo che mi
aveva imposto. Io rimasi alcuni istanti come istupidita. Ancora non comprendevo la terribile
realtà della mia posizione. Me ne accorsi però poco dopo quando il veleno incominciò la sua
terribile opera, strappandomi grida e singulti di spasimo. Il Bonino parve allora misurare le
conseguenze che in suo danno avrebbero potuto venire, e assumendo un tono supplichevole
mi scongiurò di nascondere la verità dicendo che mi ero avvelenata di mia volontà. Glie lo
promisi, e mantenni la parola! Nulla avrei mai detto se ella non fosse venuto qui. I dolori intanto
aumentavano — continuò — e allora ti Bonino svegliò la vicina di casa. Corto Angela, che
premurosamente accorse e mi preparò una tazza di camomilla, il che non valse, certo, a togliermi
le sofferenze. Fu allora deciso di accompagnarmi al vicino Ospedale di San Giovanni; il che fu
fatto. 
Lettere compromettenti  
Abbiamo detto più sopra che il Bonino si allontanò da Torino per assumere un impiego di
chauffeur a Nicastro in Calabria. La lontananza però non aveva dato la tranquillità all’animo suo.
Era tuttora in lui il timore che la donna rivelasse la verità terribile e questo stato dell'animo suo
svelò in una lettera che fu trovata dalla polizia. La verità poi del racconto fatto dalla donna fu
confermata dalla minuta di una lettera che essa aveva scritta al Bonino in risposta a quella di lui.
La denunzia e l'arresto 
Il commissario Massera, dopo avere raccolto la gravissima deposizione, fece una visita
nell’abitazione della Novaresio e nell’armadio trovò e sequestrò un’altra bottiglietta contenente
del liquido che fu poscia riconosciuto per acido muriatico, che il Bonino teneva presso di sè per
le saldatura. Proseguendo poscia per altre vie le indagini, il funzionario potè raccogliere
deposizioni varie che lo misero in grado di stendere una particolareggiata denunzia all'autorità,
giudiziaria. Presa conoscenza dei fatti, il Procuratore del Re spiccò subito mandato di cattura
contro il Bonino; mandato che fu immediatamente inviato all'Autorità di Nicastro per
l'esecuzione. In tal modo, dopo quattro mesi dal delitto, il Bonino è caduto nello mani
della giustizia. Egli verrà presto tradotto a Torino per essere messo a confronto, se già la, morte
non avrà compiuto il suo triste ufficio, con la sventurata vittima. La bimba della disgraziata è
stata provvisoriamente ritirata da una vecchia e pietosa donna.  
.. e poi continua....
Conseguenze del gravissimo delitto scoperto dopo quattro mesi 
Un cameriere che si suicida perché citato dal giudice istruttore 
La Stampa 22.3. 1912 
Ieri mattina l’Autorità venne avvisata che in una camera ammobiliata sita un caseggiato interno
dello stabile n. 37 di via San Francesco da Paola si era ucciso un uomo. Sul posto si recò
immediatamente il delegato Azzati con agenti. Salito nella camera, che è attigua ad altre pure
date in affitto ammobiliate. Il funzionario rilevò che il suicida si era sparato un colpo di rivoltella
alla tempia destra, stando seduto sul letto. Il colpo era riuscito mortalmente fulmineo. Nella camera
fu trovata una lettera chiusa, indirizzata all’ ufficio di istruzione presso il Tribunale. Il funzionario
ne prese possesso per consegnarla all’ufficio. Dalle informazioni attinte da alcuni dei presenti
egli potè stabilire che il suicida è certo Tos Gioacchino di anni 42 da Santhià cameriere al Molinari.
Potè inoltre accertare che il movente del suicidio risale al fatto da noi narrato nella cronaca del
16 corrente. In quella triste narrazione abbiamo esposte le tragiche vicissitudini toccate ad una
disgraziatissima donna, certa Novaresio Clelia, d'anni 27, che, sotto il dominio di gravi minacce
per parte del suo amante Bonino Giuseppe, aveva bevuto quattro mesi prima, e precisamente
nella notte del 6 novembre, una pozione di acido muriatico. Risalendo nel triste passato della
sventuratissima creatura, abbiamo pure narrato che in età giovanissima essa si era completamente
abbandonata nelle braccia di un cameriere, che l’aveva resa madre di una bambina, che ora ha
8 anni e che la madre aveva voluto tenere con sé invece di abbandonarla alla carità pubblica come
fanno, purtroppo, la maggior parte delle donne nubili. Orbene l’autorità giudiziaria la quale sta
costruendo l’inchiesta contro il Bonino che com’è noto fu arrestato a Nicastro volle naturalmente
precisare anche tutte le circostanza dei precedenti della tragedia: e in conseguenza il giudice
istruttore incaricato dell’inchiesta fece pervenire un invito a interrogatorio anche a Gioacchino
Tos che era appunto il cameriere ex-amante della Novaresio. Appena il Tos fu in possesso del
documento si dimostrò conturbatissimo, e questo suo stato d'animo confidò ad un collega col
quale era in maggiore intimità. Nè valse a tranquillizzarlo il pensiero che a lui, legalmente, non
venivano fatti addebiti riguardo al veneficio. Nelle sue successive confidenze al collega, questi
comprese che il turbamento andava aumentando nell’animo suo. Infatti l’altro ieri egli gli chiese
fra l’altro con quale mezzo avrebbe potuto darsi la morte senza soffrire. Impressionato da tali
discorsi ieri mattina il collega il quale affitta pure una camera nello stesso stabile entrò nella
camera del Tos per svegliarlo ma il disgraziato dormiva già di un sonno che non ha risveglio!
Fu allora dato l’allarme al vicinato e poscia all’Autorità. Dopo le incombenze di legge il cadavere
venne trasportato negli istituti universitari del Valentino
Non è dato di sapere quali furono gli sviluppi della tragica vicenda. Nella Stampa del 29
gennaio 1916, quindi di 4 anni dopo, un trafiletto reca l'annuncio del matrimonio di tal Arato Felice con Novaresio Clelia...
Ci auguriamo a distanza di quasi cent'anni che non si tratti di una mera omonimia

mercoledì 8 maggio 2013

Vie di Torino attraverso gli anni: in bicicletta per via Giacomo Dina

Via Dina costituisce l’asse principale del borgo nato a nord della FIAT e presto chiamato col curioso nome di Borgo Cina. L’origine del nome è controverso. Alcuni invocano il fatto che gli operai del vicino stabilimento indossassero delle tute da lavoro color rosso: all’uscita dai cancelli a fine turno, la marea si riversava verso casa dando l’idea di una vera e propria armata cinese…. Fantasie, probabilmente perché le tute in uso nello stabilimento furono per lo più di colore blu e non entrarono in uso che negli anni ’70…… Restano altre ipotesi come i riferimenti all’ideologia della maggior parte degli abitanti o alla loro povertà. Perfino la presenza di una colonia cinese venne ventilata……
Il nostro percorso inizia all’angolo di via Dina con Corso Unione Sovietica: di qui si può avere un colpo d’occhio immediato sulla sviluppo della via che percorreremo, preferibilmente in bicicletta e di domenica, quando le strade sono più tranquille e l’attività del quartiere ridotta.  


In questo primo tratto della via, il colore dominante, neanche a farlo apposta, è il rossiccio dei mattoni con cui sono costruiti i muri di due enormi complessi, l’Istituto Virginia Agnelli sulla sinistra, a tre piani,  e l’Edoardo Agnelli di fronte, a Nord.  Ma andiamo con ordine…..


Nei pressi della F.I.A.T. Mirafiori, prima della seconda guerra mondiale, il 3 luglio 1938, fu posta la prima pietra dell’Istituto "Edoardo Agnelli", dedicato alla memoria del figlio del senatore Giovanni Agnelli, Edoardo, morto in un incidente aereo nel 1935. Il complesso, concepito in maniera grandiosa, comprendeva cortili, aule, sale, teatro e una Chiesa. Pochi anni dopo, a guerra finita, sorsero le prime iniziative volte ad assistere in special modo le bambine e le adolescenti del quartiere. Due baracche provvisorie furono erette per ospitare una prima rudimentale colonia estiva: nel mese di luglio si teneva inoltre la colonia elioterapica gestita dalle suore di Maria Ausiliatrice.
Agli inizi degli anni ’50 prese forma il progetto, su terreni appartenenti alla famiglia Agnelli, di un grande fabbricato, prospiciente via Dina ed esteso all’attuale via Sarpi: il 26 maggio 1951 avvenne la solenne inaugurazione dell’Istituto, dedicato alla memoria Virginia Agnelli, madre dell’avvocato Gianni morta in un incidente automobilistico. Intanto, come abbiamo detto,  fin dal 1938 era sorto l’Istituto Edoardo Agnelli con oratorio, cinema teatro e le scuole di arti e mestieri per formare operai qualificati. La guerra segnò un momentaneo arresto delle attività didattiche che ripresero nel 1946 con l’ampliamento comprendente la scuola elementare e un’officina dedicata alle esercitazioni.


Oggi l'istituto Agnelli ospita la scuola media, il liceo scientifico, l'istituto tecnico industriale e un corso professionale per periti meccanici


Il 19 aprile 1941 fu inaugurata Chiesa di San Giovanni Bosco improntata  all’architettura razionalista con i soffitti a rosoni e un mosaico sulla facciata.




Continuando arriviamo alla prima traversa di via Dina, via Paolo Sarpi, superata la quale  sulla destra, incontriamo un complesso di villini bifamiliari costruito nel 1925 dalla prima cooperativa edilizia costituitasi fra i dipendenti Fiat, pensato soprattutto per gli impiegati di medio livello, come indicano la tipologia adottata e la scelta di realizzare alloggi di due o tre camere, cucina, scantinato e bagno con vasca. A progettare le case fu Carlo Charbonnet (1874-1955), architetto dello studio tecnico Fiat.



Dopo corso Agnelli il panorama edilizio muta decisamente: siamo a lato del Quartiere M2 realizzato negli anni ‘20 nel quadro di un programma comunale che prevedeva la costruzione di 2500 alloggi al fine di sopperire alla domanda di abitazioni a basso costo che la crescita urbana generava. E’ costituito da due isolati compresi tra Corso Agnelli, corso Tazzoli, via Eleonora d’Arborea e via Dina: in totale si tratta di 118mila metri quadri che la famiglia Agnelli cedette all’amministrazione municipale in cambio dell’edificazione di vari lotti di case popolari da affidare per gran parte alle maestranze dello stabilimento automobilistico. Ciascun isolato è composto da otto edifici di tre e quattro piani fuori terra mentre un ampio cortile interno è stato progettato come spazio della socializzazione. Complessivamente il quartiere M2 è costituito da 360 alloggi di cui il 58% di due camere, il 33% di tre camere ed il 9% di quatto camere. Dopo più di 80 anni il degrado ha pervaso la gran parte degli oltre 300 alloggi del blocco. Il ricambio generazionale è stato pressoché nullo con conseguente graduale aumento dell’età media della popolazione: il tasso di immigrazione si è attestato intorno all’8%. Da notare però che recentemente le facciate delle case sono state ridipinte con un bel giallo Piemonte.





Abbiamo dunque visto come , con la nascita dello stabilimento di Fiat Mirafiori nel 1939, il quartiere acquisisca un carattere spiccatamente operaio. Nuovi isolati sono costruiti tra il 1939 e il 1945 a nord di via Giacomo Dina: è il quartiere "Costanzo Ciano", che ricalca la stessa soluzione a corte interna della zona M2. Nel 1950 il quartiere viene completato con la costruzione del grande palazzo di corso Agnelli 148, inaugurando la stagione dei palazzi da sette e dieci piani, assai comuni nella zona con il boom edilizio e demografico degli anni '60.


Ormai l’aspetto della via ha assunto un carattere radicalmente diverso da quello che abbiamo visto nel suo primo tratto: grandi palazzi incombono sulla strada, i piani degli edifici si sono raddoppiati. Unico motivo che richiama la struttura dei complessi scolastici professionali di inizio via è il colore bruno del mattone. Realizzato fra le vie Del Prete, Dina, D’Arborea e De Bernardi, si tratta del terzo insediamento di alloggi minimi, costruiti sull’onda della propaganda di regime per le case popolarissime. A inizio anni Quaranta sorgono così otto fabbricati a cinque piani fuori terra, contigui al 25° quartiere edificato nello stesso periodo. Al termine della seconda guerra mondiale sono aggiunti altri sei stabili, per un totale di trecentotredici unità in cui sono sistemati dodici negozi, necessari al fine di garantire alimenti e beni primari ad un’area periferica ancora in via di urbanizzazione. Nell’ambito dell’ampliamento vengono evitate le anguste soluzioni adottate in precedenza, dilatando i volumi degli alloggi oltre la rigida uniformità di standard abitativi essenziali. Esternamente continuano invece a predominare rigorose geometrie di ispirazione razionalista, affidando i prospetti di facciata alla scansione dettata dalle aperture delle finestre, nonché dall’inserimento di un’ampia fascia in paramano di mattoni rossi, con effetti diffusi in quegli anni nell’architettura residenziale cittadina. Gli edifici dell’anteguerra erano stati caratterizzati dalla presenza di finestre con arco a tutto sesto analoghe a quelle realizzate nel 24° quartiere, in linea con la rievocazione di elementi desunti dal classicismo riportata in auge dalla cultura figurativa promossa dal regime.



Poco oltre a nord di via Dina incontriamo due edifici di fattura modesta. Strutturato in due soli fabbricati nel 1942, il complesso fu ampliato qualche anno dopo con l’aggiunta di altri sei edifici, facilmente distinguibili per l’abbandono nei prospetti esterni del minimalismo geometrico adottato in apertura del decennio. All’interno furono realizzati alloggi composti da due vani oltre alla cucina e al bagno, in genere dotato di vasca.



Il Quartiere S2 fu realizzato assieme al Quartiere S4 tra il 1947 e il 1957 con finanziamenti statali, per essere destinati ai senza tetto. Il blocco S2 è compreso tra la via San Remo, la via Dina, Corso Siracusa ed il Corso Tazzoli. Complessivamente i due blocchi comprendono otto edifici per 230 alloggi, disposti a spina di pesce. I giardini sono assenti. Recentemente grazie a i contratti di quartiere è stato possibile rigenerare le facciate degli edifici con colori giallo e violetto.  







Transitando in via Dina molto facilmente non ci avvedrà di un modesto condominio sito al numero 57/B. Ma è proprio a questo numero che nell’ottobre del 1976 ebbe inizio un’impresa caritatevole degna di un breve ricordo. Qui fu appunto aperta una comunità, gestita inizialmente da tre suore che proponevano la loro presenza sulle basi dell’amicizia, dell’accoglienza, della gratuità, dell’ascolto e del dialogo in condivisione dei disagi con la gente del palazzo e del quartiere. L’esperienza nacque in  un semplice alloggio  e col passare degli anni diede vita a molte iniziative tra cui la catechesi a ragazzi, a giovani, ad adulti della terza età e le visite ai malati a domicilio. Nel 1997, fu dato un valido un aiuto alle donne che cercavano di uscire dal giro della prostituzione. Una suora in particolare, Suor Candida Dompé, si prese a cuore l’iniziativa e diede il suo generoso contributo. Con il passare degli anni, alcune Suore furono trasferite e sostituite da altre che svolgevano mansioni diverse. L’alloggio venne quindi acquistato dalla Congregazione. La comunità venne giuridicamente soppressa il 6 novembre 2006 perché le suore rimaste era soltanto più due e, dato che l’alloggio era situato al 3° piano e senza ascensore, si trovava difficoltà a collocare una terza suora, in grado di vivere in tali condizioni. Nel 2008 si concluse l’esperienza assistenziale.

Il nostro viaggio continua ora,  in via Tazzoli dove nel 2006 è sorto il moderno Palaghiaccio  in occasione dei Giochi Olimpici invernali. Le grandi vetrate dell’edificio sono rivolte verso la fabbrica che apre la sua porta delle carrozzerie, la numero 2, all’altezza di via Sanremo.


Continuando nella bella pista ciclabile creata tra le due carreggiate di corso Tazzoli si arriva al piccolo edificio che ospita il dormitorio comunale  in grado ogni sera di accogliere  24 ospiti.



Attraversato corso Siracusa, che qui finisce, si vede in un prato giardino, il casotto in muratura dalle pareti interamente decorate da murales che in passato è stato il punto di incontro di molte iniziative, soprattutto giovanili, di gruppi impegnati nella soluzione di molti problemi all’interno del quartiere. Girando attorno al basso fabbricato si arriva al grande spazio rappresentato dalle piazze Giovanni XXIII e Livio Bianco.


Qui si affacciano la Chiesa di Gesù Redentore del 1957, la succursale mal ridotta del Liceo Cottini e tristi segni del degrado vandalico.



 Siamo ormai alla fine del nostro viaggio attraverso questo quartiere ricco di storia. In via Nallino  negli anni 50 furono costruite le case M5-M6 a palazzine parallele e a ballatoio, poco curate nei particolari e unite da una serie di aiuole giardino. In una di queste nel 2008 si è operato un intervento d’arte pubblica consistente nella creazione di  uno spazio di incontro con tavolo, sedie e fioriere in cemento. Poco lontano su corso Tazzoli  è stato trasformato uno spazio di parcheggio/transito in un “parco lineare” con aree verdi e spazi per il gioco e lo sport.



Una delle ultime tappe del nostro percorso vede le eleganti strutture del Mercato coperto di  Via don Grioli, sorto nel 197, che sta vivendo il suo momento di crisi: i banchi, un tempo circa 130, sono ridotti ad appena una cinquantina. Sono state addotte molte cause, alcune decisamente singolari, come il fatto di essere un mercato “coperto, chiuso tra alti palazzi”.




Questo fatto secondo alcuni limiterebbe la sua visibilità ….. Il fatto è che Borgo Cina è sempre più popolato da gente anziana, afflitta da sempre maggiori problemi economici.

Tornando con le ultime pedalate da via Canal si incontra un ultimo piccolo spazio verde dove a ridosso di una abitazione un bel murales conclude simbolicamente il nostro percorso attraverso la storia di un quartiere cittadino.







Per 'estensione di questo percorso mi sono avvalso liberamente di:
 La Mole24, notizie fornite da Suor Jole Stradoni, Wikipedia e L'altra Torino ed. Espress 2011