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venerdì 25 ottobre 2019

L'eterna tragica ripetizione dell storia umana... Omosessualità nella Ginevra del '500



(Targa apposta sul luogo dell'esecuzione di Tecia lungo le rive del Rodano)

Questa è la storia di Bartholomé Tecia, nato nel 1550, studente piemontese che muore nel 1566, in tragiche circostanze,  nella Ginevra della Riforma.
A 15 anni, accusato di sodomia, dopo un regolare processo viene condannato alla pena capitale dopo essere stato sottoposto a tortura. Nello stesso periodo, la seconda metà del ‘500, altre  persone subirono la stessa sorte per lo stesso reato: nei casi peggiori la pena prevista era l'annegamento. La stessa pena era applicata per chi si era reso colpevole di infanticidio, di adulterio, di violenza su minori o incesto. Il clima che si respira a Ginevra in quel tempo era permeato da un rigido controllo morale e sociale che sfociava spesso in una grande severità verso crimini riconosciuti come originati da comportamenti devianti. L'indipendenza del cantone ottenuta nel 1525 e l'adesione alla Riforma del 1536 aveva favorito l'arrivo in città di rifugiati dalle persecuzioni religiose italiane e francesi. I fragili equilibri sociali dovevano essere mantenuti con ogni mezzo. Ginevra, città modello, attira molti giovani inviati dalle loro famiglie per studiare teologia presso l'Accademia e il Collegio, istituzioni create nel 1559. Si tratta di famiglie valdesi cui in patria era vietato la frequenza a scuola per via della loro conversione al protestantesimo. Queste due istituzioni riunivano più di 2000 studenti, numero non indifferente tenuto conto del numero di abitanti di Ginevra, circa 15mila. Provenienti dall'Italia, dalla Germania, da altre città svizzere e da varie regioni della Francia, questi studenti a volte hanno solo il latino come lingua comune. Non tutti sono ricchi e alcuni sostengono i loro bisogni attraverso borse di studio concesse e gestite da istituzioni della città. In generale, sono ospitati da residenti in città o in famiglie di insegnanti.



Bartolomeo Tecia, originario del villaggio di Villar Pellice, situato nella valle che vide svilupparsi una florida comunità valdese, nel 1566, è un giovane scolaro presso il Collegio di Ginevra. Alloggia con Théodore Agrippa d'Aubigné. Il 28 maggio, Théodore Agrippa ed Emery Garnier, entrambi di 15 anni provenienti dalla Guascogna, presentano una denuncia contro Bartolomeo. Per questo motivo tutti e 3vengono imprigionati e interrogati per chiarire i fatti. Nella denuncia è riportato che tre mesi prima, Bartolomeo sdraiato nello stesso letto, una promiscuità non insolita nel sedicesimo secolo per gli studenti che condividevano la stessa casa, aveva ripetutamente proposto a Teodoro Aggripa Aubigné di fare sesso con lui. Il caso avrebbe potuto non avere nessun seguito. Ma sette giorni prima, Emery Garnier riferisce ai suoi compagni di classe che durante una sessione di studio congiunta, mentre erano parzialmente spogliati, Bartolomeo lo avrebbe incoraggiato con gesti e discorsi a fare sesso con lui. Ci si può chiedere quanto rispondano a verità queste accuse. Non c'è modo di saperlo. Tuttavia, queste accuse portano all'apertura di un'indagine contro Bartolomeo accusato di voler commettere un "crimine di sodomia" contro i suoi compagni.
Il revisore interroga più volte Bartolomeo. La ripetizione ossessionante delle stesse domande è singolare. Tuttavia fa parte della procedura cercare di ottenere la confessione più completa e dettagliata possibile. Come la stregoneria o l'eresia, il "crimine di sodomia" viola la "legge divina" dettata dall'Antico Testamento: la punizione divina che è caduta sulle città di Sodoma e Gomorra viene ricordata più volte. Il fatto che Bartolomeo Tecia sia stato informato di questi divieti e dei rischi della rabbia divina sostenuta dalla città aggrava il suo caso.

Alla fine, il 31 maggio, i documenti della procedura vengono consegnati ai giudici affinché pronuncino la loro sentenza. I giudici sono magistrati e hanno una conoscenza limitata della legge. Anche in caso di un crimine che "merita" la pena di morte, chiedono la consulenza legale di un avvocato. Nel caso di Bartolomeo Tecia, il giurista Germain Colladon propone di sottoporre gli accusati a tortura ritenendo che l '"abominevole crimine di sodomia" meriti una punizione esemplare.

Il 4 giugno, i magistrati scelgono di interrogare Bartolomeo un'ultima volta sottoponendolo alla tortura. Durante questo interrogatorio finale, Bartolomeo confessa tutto ciò che gli viene suggerito: ha cercato di fare sesso con Agrippa d'Aubigné e Garnier, e se questi compagni avessero accettato avrebbe persistito nel suo vizio e fatto sesso con uomini e ragazzi della sua età. E’ la fine per il ragazzo. Il 10 giugno 1566, in possesso della confessione del giovane rafforzata dalla testimonianza dei suoi compagni, i giudici lo condannarono a morte. La sentenza viene pronunciata a nome dei dodici membri attuali del Piccolo Consiglio, composto da 25 consiglieri  nominati a vita dal Consiglio Generale dell’insieme dei cittadini della città.  

Condanniamo Barthélemy Tecia ad essere legato, portato in via della Corraterie, sul fiume Rodano, e lì annegato. E così finiranno i tuoi giorni, un esempio per chi volesse commettere simili azioni.
Esistono poche testimonianze dell’esecuzione: il detenuto era raggomitolato, legato ai polsi e alle caviglie, poi gettato da una barca e tenuto sott'acqua fino alla morte. Il pubblico, radunato sulla riva e su altre barche,  assisteva allo spettacolo. Il corpo veniva quindi riportato a terra e trascinato al luogo di sepoltura.

Periodo storico.

Il sedicesimo secolo in Europa è un'era di violenza e grandi conflitti. Le guerre di religione (1562-1598) e le divergenze politiche tra i diversi stati hanno ripercussioni sul commercio. Povertà ed epidemie di peste causano un clima di insicurezza nelle città e sulle strade. In una società soggetta a tensioni religiose, politiche o economiche, i rapporti umani diventano più difficili e lo stato, sia esso una monarchia o una repubblica, consolida la sua autorità punendo i criminali più duramente. Bruciare, spingere, decapitare, annegare, la diversità delle torture testimonia una pratica giudiziaria che si affida allo spettacolo del dolore per cercare di arginare il crimine. Gli omicidi, le rapine, la violenza e in particolare gli attacchi alla morale familiare e sessuale sono perseguiti molto severamente. D'altra parte, in un paese cattolico o riformato, la società è profondamente legata al cristianesimo e la comunità dei cittadini è una comunità di credenti. Pertanto, nonostante la distribuzione della giustizia e del controllo sociale tra giurisdizioni secolari ed ecclesiastiche, a volte sembra difficile separare laici e religiosi come mostrano le circostanze e gli argomenti di giudici e giuristi nel caso di Bartolomeo Tecia.
A Ginevra, dalla stesura delle ordinanze ecclesiastiche di John Calvin, i membri del Concistoro esercitano la "disciplina" ecclesiastica che rappresenta una forma di controllo morale sulla popolazione. Il Concistoro è particolarmente attivo dal 1550. Sorveglia, rimprovera e sanziona ogni comportamento che considera riformabile.
Tuttavia, l'autorità del Concistoro ha i suoi limiti istituiti dallo stesso Calvino. Alcuni crimini vanno oltre la redenzione offerta dalla Chiesa. Qualsiasi atto che danneggi Dio o la comunità degli abitanti (crimine di lesa maestà, omicidio, furto, violenza, adulterio, sodomia ecc.) è soggetto alla pena capitale. Gli accusati vengono quindi restituiti all'autorità civile detenuta dai magistrati del Petit Conseil.

Il crimine di sodomia

Di fronte a un simile caso giudiziario, l'uomo del 21° secolo può solo chiedersi le ragioni della severità verso il crimine di sodomia per il quale i giudici perseguono Bartolomeo Tecia.

Giuristi e magistrati usano il nome sodomia derivato dal latino medievale mentre la popolazione usa più spesso la parola "bougrerie". Il termine "bugger", la distorsione della parola "bulgaro" o "Bogomil" si riferisce ai membri di un movimento eretico del Medioevo i cui credenti erano spesso accusati di omosessualità. "Sodomia" o "bougrerie" si riferisce alle relazioni sessuali tra due persone dello stesso sesso, maschio o femmina ma anche qualsiasi atto sessuale non procreativo, considerato "innaturale", come la masturbazione, il sesso orale e in alcuni casi di esseri umani con animali.
Se si tratta di sesso tra due persone dello stesso sesso, a seconda dell'età dei protagonisti, valutare la gravità del crimine è un grosso problema per i magistrati. In effetti, se l’atto sessuale di uomini o donne adulti con bambini è severamente punito, così come il rapporto tra due adulti consenzienti, non esiste un'età legale per fare sesso. I giuristi e i teologi del tempo definirono tre fasi dello sviluppo sessuale. Per loro, l'infanzia rappresenta un'età di immaturità psicologica e fisica, durante la quale non vi è né attività sessuale né comprensione dell'atto sessuale. Da adolescente, la persona è fisicamente matura per fare sesso, ma non ha necessariamente la capacità di giudicare e comprendere la gravità delle sue azioni. D'altra parte, l'adulto è considerato fisicamente e psicologicamente idoneo a fare sesso. Alla luce di questi principi, per gli avvocati e i teologi, se i bambini sono vittime e gli adulti colpevoli di rapporti sessuali tra due individui dello stesso sesso, quando si tratta di adolescenti, le circostanze devono essere prese in considerazione caso per caso e incidere sul grado di colpa dell'accusato.
Nel caso di Bartolomeo Tecia, la sua giovinezza avrebbe potuto essere una circostanza attenuante agli occhi dei giudici, ma durante gli interrogatori, commette l’”errore” di conoscere la gravità e la portata criminale dei suoi atti. 

(liberamente tratto da
 Sonia Vernhes  Rappaz LA NOYADE JUDICIAIRE DANS LA RÉPUBLIQUE DE GENÈVE (1558-1619) Crime, Histoire et Sociétés Vol. 13 n°1 2009 

Conclusioni

Non è facile a distanza di secoli, entrare nel merito della vicenda. Ci sono molti punti oscuri che impediscono allo storico che pure si impegni con serietà nello studio delle carte processuali, di giungere a conclusioni inoppugnabili. I due accusatori vengono arrestati prima che il reo sia formalmente imputato. Le loro deposizioni, di certo, sono rese  sotto pressioni psicologiche notevoli: ne va della loro stessa libertà e integrità fisica.  Secondo le leggi del tempo chi subisce l’atto contro natura viene risparmiato, contrariamente a chi lo esegue materialmente. E’ chiaro che riferendo di essere stati molestati da Bartolomeo i due salvano la propria vita.




lunedì 7 maggio 2018

A Ginevra negli anni della mia giovinezza

Le mie prime visite alla città risalgono ai primi anni 60. Allora ero un poco più di un bambino. Mi era stata regalata una macchina fotografica rudimentale con una fodera in plastica grigia che aveva come opzioni  unicamente la scelta tra Tempo nuvoloso/Sole splendente, messa fuoco e pulsante per lo scatto. Montava rullini da 12 foto, esclusivamente in bianco e nero. Ho ancora una foto di quella macchinetta, ritrae delle lapidi del cimitero di St Georges, per lo meno credo, che già allora costituiva luogo di meditazione e relax delle mie esplorazioni del territorio. Di Ginevra ho sempre ammirato la tranquillità di alcuni quartieri periferici, veri angoli di quiete dove lo scorrere delle giornate sembrava possedere una dimensione familiare di pace introvabile nella mia città natale. Il sobborgo (quartiere?) di Chene Bougeries per esempio, dove abitavano i miei cugini svizzeri, era un susseguirsi di giardini delimitati da basse recinzioni lignee, più simboliche che reali, di spazi ben delineati dove regnava ordine ovunque. Anche le case più semplici pur recando i segni del tempo trascorso, qualche scrostatura, i legni sbiaditi o gli infissi ormai obsoleti conservavano un aspetto che mai sconfinava nell'ordinario del cattivo gusto. I nomi stessi delle strade lì iniziavano spesso con "Chemin" (de la Gradelle,  de la Montagne, des Flombard) appellativo per cui non ho mai trovato una traduzione soddisfacente in italiano. Non "cammino" di certo, non "sentiero" e neanche il generico "via". In quel quartiere al confine con più recenti edifici dormitorio era ancora possibile scoprire angoli di verde con viali ben tracciati e semplici ma bellissime lapidi tombali: il cimitero del quartiere di Chene Bougeries appunto. Li è possibile ammirare una pietra singolare che invece che l'effige del defunto reca l'immagine di un fagiano! Dichiarazione d'amore ad eterna memoria di un animale amato?  o della nobile arte venatoria?


Ma Ginevra è anche stata il centro città con le Rues basses e i grandi magazzini tra cui lo storico Grand Passage, i cui reparti costituivano nei miei anni '60 una meraviglia continua. Soprattutto il reparto libri. Anche se avevo ormai da tempo completatata la raccolta delle avventure di Tintin, un fumetto della grande scuola belga dai tratti nitidi e semplici, dai bellissimi colori netti, la mia curiosità era attratta dai classici, su tutti l’immenso Marcel Proust. Ogni testo critico serviva ad arricchire la mia bibliografia, mi piaceva spaziare dai temi  linguistici, talora un poco noiosi e difficili ai testi più squisitamente biografici fino ad arrivare ai saggi che trattavano aspetti particolari, Proust e la musica, Proust e la pittura... Inter scaffali erano dedicati ai Livres de poche dalle belle copertine  specie quelli più vecchi con immagini che sapevano ancora un pò di rotocalco....


Dalle Rue Basses si saliva, per tornare a casa da mia sorella, per la città vecchia, attorno alla Cattedrale dove trovavo le vetrine dei negozi di libri antichi cui mi avvicinavo con curiosità e reverenza: sugli scaffali introvabili testi su Proust alimentavano la mia voglia di possesso, voglia frenata solo dai prezzi inaccessibili. C'era poi più prosaicamente la Ginevra dei molteplici supermercati. Dall'istituzione nazionale rappresentato dalla Migros alla più signorile Coop, era un susseguirsi infinito di banchi che da noi in Italia non esistevano ancora (erano gli anni '60 e a Torino la piccola, immutabile distribuzione regnava sovrana). Il reparto alimentari era fonte di continue novità inaspettate. Si spaziava dalle cioccolate che nonostante un Franco svizzero forte, erano discretamente convenienti rispetto alle nostre abbastanza limitate disponibilità nazionali. Poi le minestre liofilizzate, i biscotti, le salse e decine di altre offerte.

*
Gli anni sono passati anche per Ginevra. Sono comparsi qua e là sui muri, come nelle nostre città, gli orribili graffiti del disagio giovanile, segni incomprensibili se non visti attraverso l'intenzione dello sfregio di un bene pubblico, di un segnale di esistenze dai limitati orizzonti mentali. E' cambiata e a volte non in meglio anche la fisionomia di interi quartieri, raggiunti da opere faraoniche di viabilità cittadina. Vecchie mura di mattoni abbattute a beneficio del grigio cemento, case solide di fine '800 con le mura in bugnato circondate da polverosi cantieri. Sono forse cambiati soltanto i miei occhi: poco meno di 50 anni hanno cambiato la mia percezione dell'ambiente, quell'uniforme velo di fascino che diffondeva per le vie, sui bei portoni di legno massiccio, sugli acciotolati che portavano ai bastioni incombenti sulla place du Theatre, tutto si è stemperato nel più ordinario degli aspetti del quotidiano dove le persone hanno fretta di ritornare a casa e le automobili si riversano nelle corsie trafficate del Pont du Mont Blanc. Rue du Pré Naville conserva ancora un'aria appartata ai confini del bellissimo parc de la Grange: il balcone della Nina, anziana cugina ginevrina, dove canticchiavo sopvappensiero aspettando solo l'attimo per chiedere di farmi un giretto lungo il lago, è ancora lassù al secondo piano e di certo dell'annoiato quindicenne non ha memoria. Ritorno ogni anno a Ginevra, ripercorro le stesse vie senza mai annoiarmi, sfioro esistenze che mi saranno ignote per sempre, ogni volta guardo con ammirazione i muri delle case del centro città, muri in bugnato, quasi sempre in pietra grigia, studiate per trasmettere la solidità morale di un ceto borgehese ricco, consapevole della propria sicurezza e del proprio benessere. Anche i portoni, gli infissi delle case spesso conservati e mai rinnovati per decenni possiedono quella patina di vetustà che conferisce il fascino delle cose vecchie, immutabili e durevoli. 

venerdì 27 dicembre 2013

Cité Universitaire de Genève en 1967...



7-23 agosto 1967
Città Universitaria di Ginevra
Mein Urlaub in Genf 1967

Con il soggiorno alla Città universitaria di Ginevra mi affacciai definitivamente ad una nuova giovinezza e , in un certo senso, mi distaccai idealmente dalle consolidate atmosfere familiari. Avevo 16 anni e avevo portato a termine senza grandi scossoni il terzo anno di liceo. Il viaggio a Ginevra fu deciso perchè lì da molti anni viveva mia sorella e questo attenuava le paure di mia madre di sapere il (giovane) figlio lontano e per la prima volta senza controlli. Furono necessari alcuni giorni per costituire una eterogenea compagnia che racchiudeva una mezza dozzina di nazionalità europee e non.... La pallavolo che praticavo da qualche anno, fu certamente d'aiuto, per il resto i riti comuni dei pasti e gli incontri nella grande sala a piano terra contribuirono alla conoscenza dei residenti.
Le camerate erano comuni, molto spartane e molto pulite. Le notti erano talora animate da grevi russatori....

Le belle giornate permisero molte partite nel campetto sposrtivo della Cité.

                             
Da sinistra in piedi Bich ed Oh (Vietnam), Wolf ed Burkhard (Germania), Accosciati Wagner (Germania), Knut (Norvegia), Manolo (Italia), John (Stati Uniti)
Wolf era uno spirito allegro, ironico e scanzonato, nonchè discreto suonatore di pianoforte: cercò a lungo di farmi pronunciare correttamente il dittongo tedesco "eu" senza mai dichiararsi completamente soddisfatto del risultato.
Burkhard, sul campo di pallavolo pessimo giocatore, nei dialoghi oziosi del pomeriggio era un fine intenditore di musica.
John, imprecava spesso, animo nervoso e irrequieto
Angelica e Chistiane, ragazze di Monaco di Baviera in soggiorno di studio in città. Con Angelica, che studiava giornalismo a Regensburg, mantenni una decennale corrispondenza in francese da ogni parte del mondo. Grande viaggiatrice, cordiale e curiosa, spedì la sua ultima cartolina dal Messico a metà degli anni 70.


Angelica, freundlich und neugierig, schickte mir seine letzte Postkarte aus Mexiko in der Mitte der 70er Jahre.

mercoledì 7 dicembre 2011

In viaggio verso Ginevra alla vigilia di Natale del 62. Culoz

La lunga attesa

Era il 1962. Qualche giorno prima di Natale. Il treno ci aveva lasciato al cadere della notte su di una pensilina deserta nella stazioncina di Culoz. La piccola motrice diesel per Ginevra era partita da un pezzo senza aspettare gli incolpevoli ritardatari.



Ci eravamo accomodati nella sala d'aspetto  dove sulle poche panche di legno scuro pioveva dall'alto la luce fioca di due lampadine nude. In un angolo ardeva una scoppiettante stufa a legna che gettava sulle pareti ombre in continuo movimento. Davanti a noi sedevano pochi altri viaggiatori, chiusi in un impenetrabile e silenzioso riserbo. La stazione oltre i vetri della stanza era deserta, con rari lampioni lungo l’unico corpo centrale. Brevi tunnel collegavano i due tronchi ferroviari, il Quai 1 e il Quai 2. Mio padre sembrava assorto e preoccupato, mia madre chiedeva senza aspettare risposta, cosa fosse meglio fare. I cugini di Ginevra avrebbero aspettato. Di telefonare neanche parlarne, troppo complicato. Le ore passarono lente una due poi tre e infine  quattro. La notte era fonda quando arrivò da chissà dove il nostro treno. Seduto finalmente nello scomodo posto vicino al finestrino pensavo che di Culoz mi rimaneva il ricordo di 2 binari, di una tettoia in legno e di qualche basso caseggiato in lontananza. Del paese che di sicuro aveva una piazza, una via principale e dei negozi, nulla. Il ruggito del motore in accelerazione precedette di poco lo scossone della partenza finché la notte buia popolata qua e la di fioche luci ci inghiottì lasciando dietro a noi la pensilina di nuovo deserta.  

Recentemente ho trovato un interessante estratto dal libro di  Jean-Christophe Bailly | Culoz («Le dépaysement »), 2011 che cito testualmente:


Culoz, dans le département de l’Ain, pour la plupart des voyageurs ce n’est qu’une gare : lieu entraperçu (mais surtout pas non-lieu – la fortune de ce concept vide, même s’il désignait tout autre chose (les aires neutres des aéroports) a été catastrophique à sans presque rien autour – un village (ou une ville ?) que l’on ne voit pas, des contreforts rocheux, des bois, des voies qui semblent abandonnées, sur une aire assez grande, peut-être des hangars. Un noeud ferroviaire, comme nous on disait, où se rencontrent les lignes qui conduisent de Paris ou de Lyon à Genève et celles qui viennent d’Aix-les-Bains et de Chambéry, mais qui semble être resté de côté et n’avoir pas été pris en compte dans la modernisation des transports : les amis de Genève m’évoquent le souvenir, datant des années soixante, de nocturnes et quelque peu mystérieux changements de train et, aux heures creuses de l’après-midi, on peut même sans peine remonter plus loin dans le passé : il y a en effet dans cette gare comme une vibration d’anciens convois, avec des malles, des troufions et de la vapeur – c’est là aussi qu’un jour, en passant, je vis rouler lentement, seul, détaché, un wagon à ridelles sur la plate-forme duquel, étrangement, quelque chose brûlait. En tout cas l’idée m’est venue d’aller voir de plus près ce qui pouvait bien se cacher derrière ce nom, Culoz, et j’avais l’espoir, soit d’un charme désuet, soit d’une tendresse encastrée, comme le Bugey en ménage la surprise (mais un peu plus à l’ouest, vers Saint-Rambert ou Virieu).
Or rien comme cela n’advint, et c’est ce que je dois raconter, non parce que simplement je me le serais dit, mais parce qu’il m’a semblé tomber là-bas sur une sorte de siphon – non seulement ce que l’n appelle un trou, mais quelque chose de très difficile à décrire, soit l’un de ces lieux, et sans doute y en a-t-il beaucoup, où ni le passé, ni le présent, ni l’avenir n’ont de consistance et où tout semble devoir se diluer dans une sorte de survie qui n’a même pas pour elle l’indolence. Peut-être est-ce là, aujourd’hui, que se cache, loin des centres et comme en exil au sein même du monde rural, la vraie banlieue ? Je ne sais pas, et je sais pas non plus s’il faut nommer, rassembler sous la houlette d’un nom générique ce qui malgré tout se déclare dans une complète solitude.
À proximité immédiate de la gare, tout ce qui pourrait faire penser que l’on est arrivé en un point du monde qui aurait le bonheur ou peut-être même la présomption de se déclarer comme tel n’existe plus. Le Derby Bar, au pied d’une maison grise, et un hôtel surmonté d’un fronton en bois genre Far West où se lisent encore vaguement les lettres IMPERA sont fermés l’un comme l’autre. À travers les rideaux déchirés de l’hôtel, on aperçoit une grande salle vide avec quelques gravats et une cheminée en briques. On pense à de lointains banquets, à ces photos de groupe en noir et blanc ou aux couleurs passées où tout le monde autour de la table encombrée de bouteilles prend la pose, l’un des convives, un peu en retrait, faisant le mariolle. Une route s’en va vers le centre sous la roche grise dont il est inutile de s’approcher (chutes de pierres). Le centre, quelques rues qui se croisent, sans même qu’il y ait une place, de jeunes Beurs qui errent, un bar qui s’appelle le Rif, un autre le Fidji. Les maisons sont petites, laides, tout est gris ou ocre sale, des bacs à plante vides ornent le pont qui franchit une rivière mince et incertaine, juste à côté de la toute petite maison où, une plaque le signale, HENRI ET LÉON SERPOLLET, PRÉCURSEURS DE L’AUTOMOBILE, INVENTÈRENT EN 1875 LA CHAUDIÈRE À VAPORISATION INSTANTANÉE, il y a donc des gloires locales. Sans même que l’on s’en rende compte, on sort déjà du bourg, il y a une usine sans identité déclarée, un stade, un arrêt de bus en tôle sous des pins. Dans une côte, des garçons qui font du raffut sur de petites motos (un bruit ancien, rural). Retour vers le centre en fermant la boucle, je note les noms, la tristesse des noms : Salon Coiff’Lyre, O’Thentik prêt-à-porter (dans la vitrine, des blouses aux motifs d’épouvante, ceux qui les dessinent – qui est-ce ? – sont en phase avec ceux qui trouvent de tels noms). Là où peut-être existe un carrefour principal, les commerces en vue sont une boulangerie, une pharmacie et un distributeur de vidéos, je pourrais même ajouter le crocodile en peluche dans la vitrine d’un salon d’esthétique et des lupins poussant dans un puits comblé, des pavillons délaissés, une odeur d’eau de Javel, à quoi bon ? On l’aura compris, Culoz n’est pas un lieu de villégiature que je recommanderais, je peux même dire qu’assez vite je m’en suis enfui. Pour Lyon, où étrangement aucun de mes amis n’était là et où je me suis précipité à la brasserie Georges, pour corriger par la vision de l’immense salle Arts Déco, où cinq cents couverts peuvent être servis en même temps, les effets déprimants de ma halte culozienne. La brasserie Georges comme un rêve de paysan, les lumières de la ville et de solides nourritures sous de très hauts plafonds évoquant des retours de comices, des congrès, des fiançailles.
Donc attendant en gare de Culoz le train pour Lyon, je me suis occupé à détailler ce que l’on peut y voir et qui relève là aussi du délaissement, mais avec quelques appels nostalgiques d’un temps où le « chemin de fer » était roi : l’abri en forme de chalet aux motifs de bois festonnés, la passerelle métallique peinte en bleu clair, des rosiers chétifs et de lourds bancs de bois ou de béton sous quelques platanes, une salle d’attente avec papier peint à mouchetures, des chaises d’école dépareillées et une table de cuisine en Formica sur laquelle on trouvait Le Pèlerin et Valeurs actuelles. Qui dira la violence et l’efficacité avec lesquels de tels lieux – salle d’attente proprement dite ou quais déserts – installent une idée de la vie qui se prive presque automatiquement de toute dimension d’espoir ? C’est comme un forme de raffinement, mais à l’envers, et peut-être aussi comme une culture : il y a en tout cas une chaîne de sens unanime qui se transmet d’une gare à une autre, d’un bac à plantes à un autre et qui transite par toutes les herbes folles poussant le long des voies. À la fin, non seulement on s’habitue (l’attente se coule en elle-même, s’éprouve jusqu’à figurer une forme indolore du temps) mais on en redemande, non par un quelconque et snob appétit pour ce qui serait kitsch mais pour des effets de vérité, de véridicité, déposés à même les quais – une idéologie naïve qui vaut ce qu’elle vaut, fondée sur le principe que les fleurs, quelles qu’elles soient, égaient et que les trains, somme toute, finissent par arriver à l’heure, même s’ils sont en retard : idéologie, on le voit, à l’opposé celle, dominante, de l’efficacité lisse qui, elle aussi, a ses ornements, par exemple des palmiers ou des oliviers exilés dans de grands pots stupides comme on en voit gare de Lyon.
Mais la seule image qui peut-être a la force de se poster avant toutes ces autres, et peut-être aussi banale qu’elles, est celle de ce couple croisé alors que j’étais monté sur la passerelle et qui passait devant la gare, sur la route – lui, en survêtement et barbu, poussant un landau, elle, marchant à son côté, intégralement voilée. Un couple de mulsulmans intégristes, donc, comme on en voit désormais si souvent, mais qu’on ne se serait pas attendu à trouver à Culoz, alors même qu’en ce genre de lieux – villes ou villages égarés ou misérables, zones de péri-industrie, grande, voire très grande banlieue - c’est la règle. Ils étaient là, donc, dans la banlieue de rien, dans ce rien épars de la rurbanité nouvelle, et se parlant et riant, en promenade. Me voyant les regarder, l’homme me jeta un regard sans insistance, vaguement hostile, et c’est tout – ma pensée les accompagna ensuite, vaguement hostile elle aussi, puis s’interrogeant. Ce que je voudrais, c’est dire absolument et simplement de quoi elle était faite – de le dire, donc, à distance de toute déclaration comme de toute posture (lesquelles, de façon pénible, obsédante, sont l’une et l’autre d’usage courant aussitôt qu’il est question d’immigration et, plus encore, d’islam).
Donc au début, je l’ai dit, une vague hostilité : pas un mouvement de haine, mais un retrait, quasi un réflexe – pourquoi le nier ? Rien, dans ce qui nous fabrique et nous lance en avant dans le monde (et ce serait d’abord un fond républicain remontant à l’école publique des années cinquante – oh, il faudrait tout détailler, suivre toutes les ramifications de ce sentiment laïque spontané), ne peut préparer à cet effacement volontaire du visage féminin dont le voile est la marque. Rien non plus, si l’on pense aux gestes que la pratique rigoureuse de l’islam requiert – ces prières, ces interdits, cette absence de doute et d’ironie –, qui s’avance vers nous d’une façon compréhensible, directement admissible : les « limites de la simple raison » sont dépassées d’emblée et c’est ce qui nous crispe, mais voilà, en même temps, je dois le dire, de ce couple qui n’était pas silencieux – ils se parlaient, ils riaient – se dégageait une sorte d’harmonie, la sensation d’un partage, aussi bien, par le costume ou la panoplie, une intimité et peut-être une résistance à l’absorption pure et simple dans une nation en laquelle ils ne se reconnaissent pas. Comme c’est difficile ! Puisque je ne cherche à rien justifier, et surtout pas l’intégrisme et sa revendication haineuse, absolument tendue. Mais il y avait cette passegiata (y a-t-il un mot arabe pour désigner cela ?) et ce que je pouvais, à travers elle, imaginer de la vie de ces gens venus d’ailleurs et échoués là, à Culoz, dans un plu caché du monde sur lequel il tentaient une sortie : par conséquent leur cuisine et leur chambre, le tapis de prière roulé dans un coin, un calendrier, un biberon aussi, et des oranges, une bouilloire électrique, un sac de pain de mie à demi entamé... la nature morte que chacun improvise, la communauté facile des objets, comme un repli ou un refuge et ce que je sais, ce que je peux dire, c’est que « la France » est faite maintenant de cela, de cela aussi : de ces exils, de ces replis, de ces autels secrets et qu’il y a là comme un effet boomerang de l’époque coloniale, quand des hommes et des femmes, peut-être catholiques, venus d’Alsace ou de Normandie, poussaient eux aussi leurs landaus sur des chemins, à Tlemcen ou dans telle petite ville d’Algérie, un peu plus gaies peut-être que ne l’est Culoz.

 ©  Jean-Christophe Bailly & éditions du Seuil, Le Dépaysement, avril 2011.

giovedì 24 novembre 2011

Brani di memoria

Sono frammenti di ricordi, resuscitati dall'oblio dopo tantissimi anni. Si sono conservati nella mia memoria in virtù di chissà quale motivo profondo. Hanno la potenza evocativa propria degli odori che abitano le regioni più antiche del nostro cervello e che possono, in una frazione di secondo, riportarci ad un vissuto che credevamo perduto. 
INVERNO ANNI ‘50
Luogo: cucina di corso F......, Torino
Persone: io
Ora: domeniche pomeriggio
La radio era l’unico contatto con il mondo in quegli anni. La televisione entrò in casa mia molto più tardi, negli anni ’60. Ricordo le trasmissioni di Classe Unica introdotta da una bella sinfonia di Mozart. Al sabato pomeriggio c'era Sorella Radio per gli infermi e gli anziani delle case di riposo, noioso ma rassicurante cicaleccio a base di saluti e auguri di guarigione. La voce era quella della Buoncompagni, simbolo per eccellenza di quegli anni. Poi altri titoli come “Voci dal mondo”, il “Convegno dei cinque”. Per anni,  prima che arrivasse la piccola Gretz in legno chiaro dal design moderno, in cucina aveva campeggiato una Telefunken dall’occhio verdastro che all'accensione taceva per un minuto buono prima di ronzare e trovare il canale scelto. La domenica pomeriggio introdotta da una trasmissione di musica leggera (spesso con le orchestre di Perez Prado, Mantovani e Angelini) c'era la radiocronaca del secondo tempo di una partita di calcio con la voce dell'indimenticabile Carosio 

TARDA PRIMAVERA ANNI 50
Luogo: cucina di corso F......, Torino
Persone: mamma
Ora: Primo  pomeriggio


La scuola è finita. E' uno dei primi anni delle elementari alla Santorre di Santarosa. La porta della cucina verso il cortile, a piano terreno è aperta. Abbiamo già appeso, come tutti gli anni, la tenda verde che ripara dai raggi infocati del sole. Le piastrelle del balcone sono marroni tendenti al bordeaux, lucide, lievemente scheggiate. Il balcone è un luogo protetto, circoscritto e rassicurante, non si vede nè si è visti dal cortile. Mi posso stendere per terra e giocare con le figurine o i soldatini. Dal giornalaio ho acquistato uno dei miei primi libri Avorio nero, romanzetto d’avventura con sulla copertina un tipo avvolto in un mantello arabo che lascia vedere solo gli occhi seduto su di un cammello.

ESTATE  ANNI ‘60
Luogo: sala di corso F......, Torino

Persone: io
Ora: mattina

Verso le 10 di mattina accendevo la televisione un modello in bianco e nero senza telecomando posta in sala di lato alla finestra sul corso. Per la prima volta venivano trasmessi dei film fuori dall’orario serale solito. I film terminavano verso mezzogiorno in tempo per il pranzo. In genere erano film di guerra o trattavano vicende drammatiche che mi lasciavano per una manciata di ore uno sgradvole senso di abbattimento.

ESTATE ANNI ‘60

Luogo: Ginevra, Rue du Pre-Naville
Persone: io, mia sorella, Nina e Louis
Ora: pomeriggio

E’ una scena che si è ripetuta fedelmente una mezza dozzina di volte attraverso gli anni. Nina e Louis, cugini del ramo paterno, lei sorella dell'altra mia cugina svizzera, Caterina, lui originario del Canton Ticino, abitavano in una parallela al lago, vicino ad un grande parco. Il caseggiato era di un massiccio fine ottocento con grandi bugnati a piano terra e robuste inferriate dipintedi vernice nera. L’alloggio era al primo piano, con palchetti di legno e stanze perennemente in penombra, affollate di tappeti e mobili colonizzati da oggetti di un gusto molto personale. Nel bagno il mio sguardo era attratto invariabilmente dalla vasca  in ferro con zampe di felino e rubinetteria in ottone giallo bruno. La cucina dava su di una corte interna, la sala, attraverso un balconcino, nella tranquilla via che portava al lungolago. Le visite erano sempre noiosette e sempre con un rituale fisso: arrivo, scambio fitto di impressioni punteggiate da esclamazioni di stupore, accomodamento in sala ed esaurito un tempo minimo di cortesia, richiesta da parte mia di andare a fare un giro fino al molo dello "Jet d'eau" il poderoso getto d'acqua che, assieme all'orologio fiorito, caratterizza la città. Nina era grassottella, piccoletta, con un discreto sottomento. Gli occhi globosi erano atteggiati a perenne stupore, sorrideva affabilmente e parlava italiano con scioltezza. Louis aveva una gamba di legno per cui si appoggiava ad un bastone e spesso tra i denti sfoggiava un sigarone spento. Non avevano avuto figli, forse per via di lei ma su questo punto non c'era certezza nelle chiacchiere di famiglia. Nina è morta prima del marito, che fin a tarda età ha continuato a vivere in rue du Pre-Naville per trasferirsi infine in un ricovero per anziani dove è morto di li a qualche anno.

ESTATE ANNI ’60

Luogo: B......, in campagna 

Persone: io, gli zii paterni, i miei genitori
Ora: sera

Nella casa di campagna in via ......... non avevamo la televisione. La sera dopo cena percorrevamo il breve tratto del viale alberato di gaggie che costeggia la ferrovia ed entravamo nel piccolo alloggio a piano terra di  Guerino, il fratello minore di mio padre. La televisione era nella seconda delle due stanzette in cui lo zio abitava, quella occupata dal letto e da un armadio. Le trasmissioni dell’unico canale erano di varietà, Studio Uno oppure le Avventure di Gian Burrasca con Rita Pavone. A tratti lo sferragliare dei treni di passaggio, diretti in Francia, coprivano il suono della televisione e allora cercavo di seguire le parole attraverso il movimento delle labbra, il più delle volte senza successo.


INVERNO DOPO il 1960
Luogo: in città  corso F......

Persone: io, mia madre, mia sorella
Ora: sera

Alla tele trasmettevano La Pisana. Nel castello di Fratta Carlino amoreggiava con la bella e maliziosa cugina (una strepitosa Lydia Alfonsi). Dovevo studiare a memoria una noiosa poesia di Manzoni che parlava di sconosciuti Re Longobardi e di biondi capelli... Mia sorella in visita dalla lontana Svizzera dove risiedeva ormai da mesi dopo il recente matrimonio, contribuiva a rendere l'atmosfera di casa piacevolmente animata. Leggevo i versi di quell' incomprensibile melassa di roride morti e affannosi petti chiedendomi che aspetto avesse la persona che anni prima aveva destinato al programma di studi una simile mostruosità....     

INVERNO 1962
Luogo: Torino
Persone: io, mamma
Ora pomeriggio

Il cinema Eliseo è il "Cinema" per antonomasia della mia infanzia. In quella sala, unica ed enorme allora, non ancora suddivisa in vari piccoli ambienti, ho visto film come Lord Jim, 55 giorni a Pechino, Tre contro tutti, 007 dalla Russia con amore e tanti altri. Al cinema andavo accompagnato da mio padre, in genere la domenica pomeriggio nella stagione invernale. L'ambiente era spesso velato da una cortina di fumo, qualche incosciente faceva volare il mozzicone acceso giù dalla galleria. Ricordo in particolare un film che mi fu negato, si trattava de L'ira di Achille, di cui ricordo ancora la locandina raffigurante un guerriero digrignante armato di spadone, il viso coperto per buona parte da un elmo metallico piumato. Non ricordo il motivo della proibizione ma mia madre fu inflessibile nonostante le mie insistite rimostranze e continuò a stirare severamente mentre il giorno moriva sulle pareti della cucina sul cortile.


ESTATE 1963
Luogo: Sion (Svizzera)
Persone e cose: io, Wagner e la Panhard
Ora: pomeriggio


Il mio primo disco mi fu regalato all'età di 12 anni a Sion nel cantone del Vallese dove mia sorella si era trasferita appena sposata. Ascoltai per giorni e giorni quelle maestose sinfonie che mi ispiravano grandi sogni e contenute emozioni. La realtà era più ordinaria. Mi divertivo a guardare dal terzo piano il flusso dei veicoli sulla strada che portava al centro della cittadina cercando di riconoscere i vari modelli: Ford Taunus, Renault Dauphine, Panhard. Su tutte mi piaceva quest'ultima, con le sue sinuose forme tondeggianti e il rumoroso ronzare del motore.  Catalogavo, scrivevo su fogli a quadretti i passaggi delle vetturette.... e intanto sentivo le valchirie cavalcare e Sigfrido compiere l'ultimo viaggio. Gotterdamerung,  Waldweben, der Ring, nomi affascinanti e incomprensibili al di là dell'immediatezza del suono. La realtà si univa alla leggenda quando riposta la penna, mi coricavo e sognavo, ormai dimenticati i giochi, lontani amori ancora sconosciuti



ESTATE ANNI 70
Luogo: Casa di mia sorella a C...... (Ginevra)

Persone: io
Ora: pomeriggio, solo in casa

La casa di C..... era una grande villa con ampia vista sulla piana che digrada verso il Monte Salève. Quel pomeriggio ero solo in casa senza programmi nè idee, assediato da una persistente e leggera noia. Finito di esplorare la biblioteca dove facevan bella mostra le edizioni d'arte di Skira, una sgualcita grammatica della lingua tedesca, le avventure a fumetti di Tintin e qualche numero, un poco discosto alla vista, di Playboy) avevo cominciato a guardare i dischi di musica Classica. Conoscevo già la copertina lucida dell'anello del Nibelungo dove spiccava un elmo cornuto e altri simboli di guerra mentre il nome di Dvorak non mi diceva granchè. Fu dunque per caso che misi sul piatto la Sinfonia del Nuovo Mondo. La musica mi avvolse con una profonda malinconia. Guardavo la pianura oltre le grandi vetrate all'inglese, immensa distesa di case ed esistenze. Avvertivo acutamente una solitudine mai provata prima tuttavia non ero triste.


ESTATE DEL 72
Luogo: cucina di corso F..... Torino

Persone: io
Ora: le 22 circa

Ho nelle gambe la stanchezza della camminata per le strade della collina fino a P..... Come l'anno passato buona parte della nostra classe F del Liceo Galileo Ferraris ha compiuto questa scampagnata fino alla casa dei nonni di L. Lei non è ancora la mia fidanzata, ha lo sguardo assorto nelle foto di quel giorno sotto l'ombrello nero che la ripara dalle gocce di pioggia cadute dopo pranzo. Tornato a casa mi sono messo a letto a riflettere sulla giornata. Fra qualche giorno tutti partiranno per le vacanze d'estate, Il vento soffia e muove a tratti le saracinesche dei garage in cortile, un suono che ho nella mente fin dai miei primi ricordi. Non so dire se sono triste, sento tutti amici,  

ESTATE DEL 73
Luogo: Finlandia del Nord


Persone: Io, M....., E...... 
Ora  l’alba ovvero le tre di notte

Dopo aver chiacchierato nella capanna monocamera di legno, aver scritto in silenzio alle fidanzate (quelli di noi che l’avevano), aver visto imbrunire verso mezzanotte e sorgere l'alba dopo un ora, usciamo a passeggiare lungo la strada deserta che si snoda diritta senza fine tra gli altissimi e radi abeti. Siamo stanchi, dopo un mese di viaggio cominciamo a sentire la fatica di condividere tanti giorni sempre insieme. Nonostante tutto rimane la voglia di scherzare. Sembra un mondo quello intorno a noi ormai disabitato per l'eternità. Nelle pause dei dialoghi avvertiamo solo il rumore lento e  continuo del vento. Torniamo nell'isba per riposare dormire un oretta prima di riprendere il viaggio di ritorno verso Sud.