sabato 12 settembre 2020

Valle Maira


 Terzo soggiorno, nello spazio di un mese, in valle. Si perde invece nel lontano passato della mia giovinezza il ricordo della mia prima volta qui. Era la fine degli anni '60, per due estati fui ospite di Riccardo, compagno di liceo, la cui famiglia originaria di Acceglio passava le vacanze estive nell’austero caseggiato in centro paese che per anni fu adibito a caserma. Tanti alloggi, molti vuoti, scale a non finire, stanze sempre in penombra, popolate di mobili massicci e di una infinità di oggetti, giornali, soprammobili, sedie tavolini e canterani con ante di vetro che celavano a loro volta una miriade di suppellettili. Le vacanze in paese erano stanziali in massimo grado. Nessuna escursione, qualche passeggiata nei dintorni, lunghi pomeriggi nel caffè dell’hotel a giocare a calcetto, a pensare al vero motivo della mia venuta, che immancabilmente era la partecipazione ad un torneo di pallavolo da organizzarsi fra squadre del paese. Erano gli anni della mia militanza pallavolistica col CUS Torino, anni ancora molto amatoriali che in capo a qualche anno avrebbero portato la pallavolo torinese ai massimi livelli nazionali: ma lì ero già andato in un’altra squadra in quanto gli studi di medicina non erano compatibili con il nascente agonismo. E poi lo ammetto, forse non ero quel bravo giocatore che pensavo: l’altezza c’era ma difettavo della potenza e coordinazione necessari per emergere. Il torneo alla fine non si svolgeva. Mancavano i giocatori. Nell’ultima estate passammo una notte a guardare il cielo stellato della notte di San Lorenzo e a parlare di un futuro ancora vago. Poi finì il liceo, cambiarono le abitudini e della Valle Maira restò il ricordo sbiadito di tanta noia e di tornei mancati. Fino a questo 2020 in cui, complice la pandemia, si è ridimensionato il programma di vacanze. La sorpresa di trovare una valle ancora viva, con offerte di alloggiamento di qualità, è  stata una sorpresa. Risalendo la valle si incontrano tanti paesi, qualcuno minuscolo altri più strutturati. In ognuno si coglie il segno di una qualche residua attività. È vero, molte case sembrano in disuso, molte insegne scolorite dagli anni recano la memoria di operosità finita da tempo. Albergo Impero. Residence Ciarbonet. Non è una valle a buon prezzo. Le locande in alta valle hanno mediamente prezzi superiori a quelli dell’Alto Adige. In compenso offrono servizi di ristorazione e alberghieri molto simili. Esiste una certa cura, ho notato, nel cercare una clientela attenta ed esigente. Soggiornando qui, ho più volte pensato alla filosofia della Riviera Ligure quasi sempre impegnata in un mordi e fuggi davvero peregrino. Nessuna fidelizzazione. Prezzi alti, bassissima qualità. Anni fa a Noli ho cercato invano di affittare un bilocale che non avesse mobili e suppellettili della nonna in perfetto stile anni 50/60.  Ho in breve lasciato perdere, perché l’offerta era davvero deprimente. Alloggi presentati  con ancora i “segni” del soggiorno dell’affittuario precedente, suppellettili sfinite dagli anni, cassetti  odorosi di antiche abitudini.

Ma torniamo alla Val maira. Soggiornare nella parte alta, dopo Acceglio per intenderci, dà l’opportunità di essere di mattino presto sui sentieri senza faticose levatacce. Perché per chi abita a Torino come me, è quasi d’obbligo pernottare almeno una notte in valle. Troppi i più di 300 chilometri da percorrere in un solo giorno. In tre dei miei soggiorni ho perlustrato tutti i luoghi che fossero alla mia portata ovvero non più di mille metri di dislivello, massimo 5/6 ore di cammino e assenza di tratti troppo esposti nè tantomeno vie ferrate. Il percorso di Frascati, i laghi Visaisa e Apzoi, oltre al lago Nero. Il giro della Rocca Provenzale. Il lungo vallone di Maurin  e la avventurosa strada in disuso per Elva sono solo alcuni dei bei itinerari effettuati nei mesi di agosto e settembre 2020. Rimane, leggo, ancora molto da approfondire soprattutto sul versante storico della valle. Le sue tradizioni, gli acciugai per esempio di Macra, le numerose chiese con affreschi  quattrocenteschi, i borghi sparsi nella media valle. 

sabato 22 agosto 2020

Lenin: un cadavere al servizio di una causa

 


Le foto che ritraggono Nadezhda Krupskaja  la vedova di Lenin trasmettono l’impressione di una volontà ferrea e grande determinatezza. Fino alla fine dei suoi giorni ricoprì importanti cariche, fu infatti membro del Comitato centrale del partito  e membro del presidium del Soviet Supremo.  Donna di solida cultura con una chiara visione politica di quello che soprattutto nel campo della scuola e dell’educazione andava fatto, era un punto di riferimento per il marito che le sottoponeva sempre i suoi scritti. Tutto questo non servì ad evitare che dopo la morte di Lenin si avviasse quel processo di venerazione/culto della salma voluto da Stalin. Troppo importante era infatti l’opportunità di sfruttare il cadavere del padre della rivoluzione in un sistema di acquisizione costante di consensi. Vana fu la lettera inviata da Nadezhda  al Politburo in cui si esprimeva la preghiera di non vedere il marito diventare oggetto di un culto della personalità. Se voi volete onorare la sua memoria - disse testualmente - costruite degli asili nido, dei giardini d'infanzia, edificate case, biblioteche, policlinici, ospedali, ricoveri per invalidi e così via, e soprattutto mettete in pratica i suoi insegnamenti". Anche Trotzky sottolineò come fosse inopportuno e molto poco “atteggiamento rivoluzionario” sostituire le reliquie dei santi della chiesa ortodossa con altre reliquie. Ma Stalin aveva bisogno di miti cui aggrapparsi non da ultimo per il consolidamento della sua posizione personale. In breve fu trovata la soluzione della conservazione del cadavere che doveva rispondere ad alcuni presupposti inderogabili: la salma doveva conservare un aspetto presentabile il colorito del viso soprattutto doveva risultare come quello di una persona in vita,  incarnato roseo e espressione serena. Così erano soddisfatte le aspettative dei milioni di visitatori del mausoleo. Fu un coraggioso un anatomo-patologo dell' università di Kharkov, il professore Vladimir Vorobiov ad azzeccare il giusto "balsamo" in grado di procurare l’eternità ai poveri resti terreni di Lenin. Il leader fu immerso in un bagno di formaldeide per un paio di settimane, per uccidere germi e batteri, impedendo così il progredire della decomposizione mentre con una soluzione di glicerolo si provvide ad ammorbidire la pelle. Si pensò quindi ad attenuare il rigor mortis, che avrebbe reso difficile il collocamento di Lenin all’interno della teca. Vladimir non era uno stinco di santo, di lui si scoprirono negli anni molte piccanti propensioni ai peccati della carne, ma gli va riconosciuto il coraggio di aver rischiato la carriera e forse anche la vita nell’esecuzione di questa impresa (Stalin non era particolarmente tenero verso chi falliva compiti da lui assegnati). La spietata logica della ragion di stato trovò giustificazione nel successo di questa operazione che oggi definiremmo mediatica. Milioni di persone da ogni angolo della sterminato territorio russo si riversarono a Mosca per far visita all’eccellente salma. Gradualmente il mausoleo si arricchì di strutture e apparati di laboratorio in grado di monitorare la salma e addirittura di provvedere ad accogliere, negli anni, altri illustri cadaveri necessitanti di garanzie di eternità. Nel trentennio ‘50-’70 arrivò a dar lavoro a più di 200 persone. Con la fine del comunismo, il laboratorio sembrava destinato a scomparire per mancanza di fondi tanto più che i finanziamenti statali si erano ridotti al 20 per cento. Il sindaco di Mosca ha però avuto la brillante idea di fornire i servizi di imbalsamazione/conservazione a potenti famiglie mafiose che desiderano mantenere viva la memoria dei cari defunti sborsando cifre di tutto rispetto. Con la relativa liberalizzazione di parola all’interno del grande ex impero sovietico sono sorte proposte di tutti i generi non ultima quella di trasformare la teca con il suo contenuto in una esposizione itinerante in giro per tutto il pianeta naturalmente a pagamento….

 


venerdì 14 agosto 2020

One Night Hotel. Gli alberghi di una notte. Esperienze di viaggio.

 Ho chiamato così quegli hotel che nei miei viaggi mi hanno accolto per una notte sola, in giro per l’Europa, durante viaggi di trasferimento verso il luogo o paese di vacanza. Sono hotel situati  nei pressi di una grande via di comunicazione, in genere un’autostrada facilmente e rapidamente raggiungibili quando la stanchezza della guida diventa fastidiosa. Non li ho, da tempo, mai scelti a caso, perché devono rispondere ad L uno requisiti di base: poco costosi, con colazione inclusa nel prezzo, un minimo accoglienti e non posti in grandi centri urbani. Tutte queste prerogative le puoi selezionare solo mettendoti pazientemente al computer e cercando in siti come Booking o Trivago quello che meglio risponde alle tue esigenze. Negli ultimi anni, cosÌ facendo, ho potuto usufruire di sistemazioni adeguate senza spendere grandi cifre. L’ultimo ONH della serie in ordine di tempo è stato un hotel frequentato da camionisti poco dopo Firenze posto a poco meno di metà strada tra Torino e Agropoli. Entrato in camera ho percepito l’odore dolciastro di disinfettante che in tempi di Covid viene usato un po’ ovunque sulle suppellettili per igienizzarle. La stanza presentava l’anonimato tipico di questo hotel. In questo caso comodini, luci, armadio mi riportavano ad una asettica rappresentazione degli anni ‘50. Nessun tentativo di abbellimento, tutto attentamente studiato per offrire il minimo confort al viaggiatore distratto che vuole solo mettersi a letto il più presto possibile per ripartire la mattina dopo all'alba. Lo squallore contenuto dell’ambiente comunque non disturba più che tanto in questi casi. Conta unicamente la pulizia, l’assenza di rumori esterni che disturbino l’addormentamento. Sono tollerati lontani rumori dì sciacquoni di altre stanze che in un certo senso danno un senso di sicurezza significando che al di là delle bianche pareti la vita continua, che persone assorte nei loro pensieri, fanno gli stessi gesti tuoi prima di scostare le lenzuola e giacere ad occhi aperti nel buio in attesa del sonno. Non sempre è stato tutto così tranquillo e riposante. Anni fa giunsi  di notte alla periferia di Terragona sudato e stanco per i mille e passa chilometri fatti nell’illusorio proposito di giungere all’imbarco di Cadice per il Marocco in un trasferimento non stop. Con me mia moglie e mio figlio. Questa volte la scelta dell’hotel fu affidata al caso. Non esisteva possibilità di scelta vista la stagione un agosto caldissimo che spingeva ogni sorta di villeggianti ad affollare ogni più squallido tugurio. Questo lontano nel ricordo hotel era in via della periferia della località spagnola, dove enormi condomini, edifici di ogni tipo e condizione trasmettevano un idea immediata di soffocante disperazione che il bianco predominate delle mura non attenuava anzi. Tutto quel biancore mi riportò alla mente le lezioni di un estroso professore al liceo che con tono scanzonato sciorinava tutti i significati celati nei colori usati da Mallarmé nelle poesie. Il bianco in particolare ( il collo del cigno che si distende) stava a simboleggiare l’angoscia della sterilità creativa... Strani pensieri, certo solo fulminee associazioni mentre pagavo in anticipo la topaia del primo piano che ci avrebbe dato un illusorio riposo. Ma questa di Terragona fu un’eccezione legata all’inesperienza e alla improvvisazione. In quegli anni internet non era ancora disponibile e per reperire un hotel dovevi affidarti alle incerte indicazioni delle Guide Rosse Michelin che volavano alto e non aiutavano certo chi volesse spendere poco. Un buon ricordo è quello dell’hotel di Sofia scelto per spezzare il viaggio da Istanbul. O quello nei pressi di Linz in Austria situato in una stazione di servizio isolata nella campagna. Stanza grande, igiene perfetta, tutti i confort. Vienna ci aspettava il giorno seguente. Sempre nel viaggio a Istanbul conserva ancora adesso un piccolo fascino la tappa a Paracin nel cuore della Serbia, non lontano dalla capitale. Vi giungemmo a fine pomeriggio quando il sole allunga le ombre con un bel colore rosato e attenua le brutture operate dall’uomo. Paracin è un polo industriale. Di lontano, lasciata la superstrada che da Belgrado si dirige verso l’estremo sud del paese, lo Sky Line è costituito da ciminiere di complessi siderurgici e dalla forma inconfondibile a ziggurat del nostro hotel il Petrus. Peraltro la silhouette ricorda anche un vero e proprio carciofo alla romana.... La sistemazione incarnò i principi base di questo tipo di hotel che sto raccontando. Economicità (42 euro), interni spartani dove le pareti con cemento a vista (anche all’interno della stanza) trasmettono un idea di provvisorietà immanente, arredi ridotti all'essenziale. La colazione, la mattina seguente, fu talmente esigua e povera che ci indusse ad una partenza veloce senza elevare nessuna protesta ai distratti e imperturbabili impiegati della reception. Nonostante tutto l’hotel di Paracin non è relegato tra i peggiori alberghi che negli anni ebbi modo di frequentare. 


martedì 2 giugno 2020

Il Parco della Rimembranza (o della Maddalena) di Torino

La bellezza di Torino non si rivela al viaggiatore frettoloso. La città  sa come catturare l'attenzione del turista curioso. Un fiume, una collina, un centro storico raccolto che fa si che le distanze tra i luoghi di interesse non siano troppo disperse. E poi ci sono tante piccole curiosità, non sempre facili da scoprire, che richiedono pazienza, ingegno e un pizzico di fortuna. Il Parco della Rimembranza non ha un appeal in grado di trasmettere soavi riflessioni al turista curioso. Per tanti motivi non lo consiglio a chi non ha tempo nè desiderio di riflettere su certi sgradevoli aspetti della  nostra storia patria. 
Rimembranza. Di cosa? Semplice. Di più di 4000 soldati vissuti in città, morti nella Grande Guerra. I loro nomi sono scritti con accanto la data di morte, su dei paletti di legno posti lungo i numerosi sentieri che salgono verso la sommità del Colle. La data di nascita non è riportata, ma è facile immaginare non tanto precedente gli anni 1916, 1917, 1918 che a volte con fatica riusciamo ancora a leggere sui piccoli bronzetti delle steli. Nomi che si ripetono, ordinati alfabeticamente: Mario, Bruno, Remo, Giovanni, Giuseppe.... Di sicuro tutti poco più che adolescenti. 
Saliamo dunque lungo viali i cui nomi, chi più chi meno, sui banchi di scuola ha imparato a conoscere, anche solo per sentito dire: Monte Sei Busi, Podgora, Castelgomberto, Castagnevizza. E' un'ascesa, la nostra, che racchiude un simbolo di grande potenza. Raggiungere in alto sul piazzale della Vittoria la grandissima statua-faro alata di Rubino significa assaporare l'inebriante gusto della  Vittoria ma per farlo dobbiamo soffrire, arrivare anche a morire, lasciando solo una effimera traccia della nostra esistenza racchiusa in piccole targhette metalliche. Ed eccoci in cima, con tutt'attorno il silenzio del pomeriggio estivo, possiamo sederci all'ombra delle poderose membra della dea luciferina (portatrice di luce)  e abbandonare al contempo la disgustosa ipocrita celebrazione di tante morti inutili. I morti sono morti. Accompagnati al macello da generali carnefici con addosso i panni della più bieca retorica della guerra giusta. Ci vuole un po' di fantasia per scorgere in quei nomi che ci hanno accompagnato fin lì, delle persone che sono state straziate nella carne e forse prima ancora, nello spirito. Ancor più difficile è questo pensiero se guardiamo la gente intorno a noi ridere, scherzare o chiacchierare senza nessun ricordo nè consapevolezza di quell'istante ormai lontano più di cento anni in cui  si spegneva una giovane vita. Di sicuro siamo stati bravi nel mascherare queste orribili morti con tutto il corredo ipocrita dell'eroismo, delle fanfare, dei nastrini e delle medaglie, delle celebrazioni rituali. C'è persino un generale tra le migliaia di soldati semplici morti qui ricordati. Il chè è singolare perchè quasi tutti i valorosi generali della nostra Grande Guerra sono deceduti placidi nei loro letti, tra il tintinnio triste delle medaglie e delle decorazioni al merito. 
Non è più così piacevole la scampagnata nel verde pubblico cittadino tra i maestosi carpini bianchi, le querce, i noccioli e le centinaia di specie arboricole messe qui a dimora fin dalla fine degli anni '20. Scendendo verso il fiume, non riusciamo più a pensare a questa immagine diffusa di retorica bellica che parla di eroi immolatisi per una causa suprema. Solo tristezza e rabbia, sentimenti che non si addicono ad una vacanza spensierata in una bella città.


venerdì 24 aprile 2020

Il Maciste di Porta Pila a Torino



Foto postata su Facebook dal signor Mario Anesi.

Correvano gli anni '60 e Torino viveva la prima grande ondata immigratoria. Molti erano partiti dal Sud con la precisa intenzione di trovar posto nella grande industria dell'automobile che in quel decennio si stava configuarando come forza trainante dell'economia cittadina. Non tutti però... Qualcuno non voleva piegarsi alle monotone regole di una vita tradizionale, scandita da immutabili orari e doveri quotidiani. Tra questi Gioacchino Marletta da Catania. Fisico possente, sguardo penetrante, grande capacità circense. Sulla piazza storica dei commerci torinesi, Porta Pila, Gioacchino ogni domenica presentava al pubblico la sua personale rivisitazione dell'arte mimica. Armato di vecchi copertoni d'automobile e di un macigno di granito, intratteneva i suoi habituées con gesti di sfida, inframmezzando piccole e concise affermazioni a farfugliamenti inintellegibili, sempre però accompagnati da sguardi minacciosi di truculenta furia provocatoria. Il raggiungimento del climax era lento, in ascesa graduale, l'acme era costituito dall'innalzamento del macigno in un rituale simbolico di offerta a sconosciute figure soprannaturali... In pochi secondi si passava poi ad una più terrena richiesta di contributi, cappello in mano proteso senza malizia ai partecipanti dell'happening. Gioacchino fu una meteora, che attraversò un intero decennio. Di ciò che fu di lui nei restanti 30 anni che ebbe a vivere, poco o nulla si sa. La piazza era il suo mondo e lì trasse di che sostentarsi con piccoli commerci. Nel 2001 morì in ospedale in solitudine. Ma non fu dimenticato il Maciste di Porta Pila. Il Comune gli riconobbe il merito di avere contribuito a rendere la tetra città del lavoro degli anni del boom, un po' meno triste. Una targa commemorativa nel settore più importante del cimitero monumentale di Torino ricorda la sua figura e la sua lieve traccia umana.  

venerdì 21 febbraio 2020

La Biblioteca Nazionale di Torino: un travaglio di quasi 50 anni.....


Prime attenzioni 
LA STAMPA - Giovedì 11 Agosto 1936
Chi è l'autore del palazzotto di piazza Carlo Alberto? Dopo le animate discussioni, a cui La Stampa non si è tenuta estranea, sopra l'importanza e i pregi artistici (inesistenti) del palazzotto destinato a cedere il posto alla nuova Biblioteca Nazionale in piazza Carlo Alberto, nulla sembra cambiato e tutto si direbbe ancora allo statu quo. Ma a quanto ci si assicura, non sembra lontano il giorno in cui un piccone si abbatterà su quei muri già caratterizzati dai segni premonitori, di giorno in giorno più evidenti, dell'abbandono assoluto. Il palazzo della Biblioteca in progetto si protenderà di ben cinque metri oltre la fronte del fabbricato attuale. La cadente e non bella scenografia pertanto è condannata in ogni caso a sparire. I suoi lodatori, a quanto si dice, avranno tuttavia la soddisfazione di rivedere quella stessa scenografia, vera fenice della favola, ricostruita più o meno fedelmente sulla facciata stessa della Biblioteca prospiciente la piazza. Queste le voci correnti. Ma senza mancare di riguardo a nessuno, c'è poco da plaudire a quella parte almeno del programma che si riferisce alla ricostruzione. Poiché non si vede chi ne potrà rimanere soddisfatto. Chi ama la storia non si lascerà illudere o sedurre da una piatta imitazione: chi ama l'arte trova difficile che quell'edificio possa essere ravvivato ed essere reso appena più sopportabile dall'opera di un architetto più o meno novecentista. Senza prevenzioni, il nostro discorso non vorrebbe essere che l'epicedio o elogio funebre, di un'opera architettonica della quale presto non rimarrà che il ricordo.
Discussa paternità.
Quando si entra come quando si esce dalla scena del mondo è di prammatica un regolare stato civile. Ora parrà strano che la data stessa approssimativa di nascita, nonché la paternità del fabbricato in questione, risultino ancora tutt'altro che chiaramente definite. Per alcuni quella costruzione risale infatti alla prima metà del secolo scorso, per altri alla fine del Settecento. A seconda dei giudizi cambiano, naturalmente, la paternità artistica e le circostanze determinanti. Trattandosi però di storia moderna, la questione non dovrebbe essere poi troppo difficile da risolvere. Vediamo che cosa dicono in proposito gli specialisti di storia edilizia torinese. In un recente e dotto lavoro su "L'architettura in Torino durante la prima metà dell'Ottocento" l'ing. Eugenio Olivero attribuisce senz'altro la «bassa facciata, in stile neo-classico e quasi impero», a Filippo Castelli: un architetto forse piemontese, il quale svolgeva la sua attività professionale in Torino negli ultimi decenni del secolo XVIII. Però si tratta di una semplice ipotesi e non di un dato di fatto positivamente accertato. Anche un'ipotesi, tuttavia, quando emani da un profondo conoscitore, anzi da uno specialista, merita tutta l'attenzione. Perciò appunto se ne fa cenno. In un lavoro alquanto meno recente, pur esso interessante e ricco di notizie, su Lo sviluppo edilizio di Torino dalla Rivoluzione francese {Torino, 1918), l'ing. Camillo Boggio riporta alcune notizie di un'importanza forse decisiva nei riguardi detta controversa attribuzione. Secondo il Boggio la formazione dell'attuale piazza Carlo Alberto risale a circa un secolo fa, ed esattamente al 1833, in rapporto al piano e alla relazione dell'architetto Ignazio Michela, del due febbraio di quell'anno. Sino a tale data l'area compresa tra il palazzo Carignano e il fabbricato antistante a est, era notoriamente occupata dal giardino dello stesso palazzo Carignano e chiusa a nord e a sud da due muri di allacciamento tra i due fabbricati: il palazzo e le scuderie. Da caserma a Scuola dì guerra Il re Carlo Alberto (come riferisce il Boggio) «alienò alla città di Torino quel terreno, che fu ridotto a piazza » con la demolizione dei muri di cinta. Non sappiamo come si presentasse la fronte dette antiche scuderie verso il palazzo Carignano, mancando di ciò ogni testimonianza. Sappiamo che per un certo tempo, sino oltre il 1851, il fabbricato già delle scuderie fu adibito, con gli opportuni adattamenti, a «quartiere» o caserma dei Granatieri. 
Già nel 1856 però, quando ancora si discuteva alla Camera intorno alla migliore collocazione del progettato monumento a Carlo Alberto (inaugurato nel 1861) il fabbricato ospitava l'Istituto Tecnico. Nel 1880 esso era già divenuto sede detta R. Scuola di Guerra. Tutte queste diverse e sempre più importanti destinazioni (caserma, scuola media, scuola superiore) ci costringono a ritenere che la costruzione venisse rinnovata di sana pianta, esternamente come internamente, sin dalla prima trasformazione dell'area da giardino privato a pubblica piazza. Conclusione questa, la quale trova la sua piena conferma nello stile e nella decorazione della facciata, che, a considerarla attentamente, assai poco ha di neoclassico e molto invece, per così dire, di basso impero. L'abbondanza dei trofei e dei motivi militari in genere, lo spreco di aquile e di festoni, di elmi e di bandiere, lo stemma sabaudo centrale, fanno effettivamente ritenere che l'architetto avesse in mente una destinazione dell'edificio a carattere militare. Fu Ignazio Michela autore di quella facciata? La cosa è più che probabile, poiché se è vero che il Michela ebbe a lavorare alla Curia Maxima o Corte d'Appello, che è di uno stile severo, rigorosamente neoclassico, è anche vero che per la Curia Maxima egli non ebbe che a completare quanto era stato fatto o progettato da altri (Filippo Juvara, Benedetto Alfieri), mentre per la piazza Carlo Alberto egli potè scapricciare il suo genio classico barocco. Se altri vorrà riprendere e integrare la storia, qui appena accennata, del morente palazzotto, con la omissione della sua ultima metamorfosi in ufficio telegrafico, renderà senza dubbio un utile contributo atta storia edilizia torinese. Fino a quel giorno, però, crediamo che intorno ai modesto e presuntuoso fabbricato del Michela non si siano mai spese tante fatiche quante ne riassume in breve questo non commosso epicedio.

Il problema del "muro" torna di attualità

Giovedì 12 Luglio 1951 LA NUOVA STAMPA 

URGENTI PROBLEMI DI EDILIZIA CITTADINA
Un ingombrante muro impedisce la sistemazione di una piazza
Restano parecchie aree vuote da colmare nel centro della città. Necessità di varare al più presto il nuovo piano regolatore.
Tra i numerosi problemi di carattere urbanistico che la nuova amministrazione dovrà sollecitamente affrontare, non ultimo è quello di una definitiva sistemazione di Piazza Carlo Alberto. Tale piazza è a tutt’oggi delimitata nel lato di fronte al Palazzo Carignano, dalle antiche scuderie, edificio in stile neoclassico eretto sulla fine del sec. XVIII su disegno dell'architetto Filippo Castelli. Di esso però non esiste più che la facciata, ancora in piedi tra la piazza e l'area retrostante distrutta. E' venuto quindi a crearsi in pieno centro cittadino un altro vuoto che non contribuisce certo al decoro della città. In questi ultimi sei anni l'interesse dei costruttori non ha mancato di rivolgersi anche alla zona delle antiche scuderie dei Carignano, ma l'esistenza della facciata ha scoraggiato tutti i progettisti. Essa infatti è stata dichiarata sotto il vincolo della legge 1° giugno 1939 n. 1089 per la tutela delle cose di interesse storico-artistico; in altri termini, nessuno può abbatterla per costruire un edificio completamente nuovo.Veglia infatti sulla sua conservazione la Sovrintendenza ai monumenti, la quale al massimo sembra disposta a lasciar sorgere un nuovo edificio a patto che esso incorpori nella sua integrità il vecchio muraglione. Sul valore, storico-artistico della facciata, non tutti sono d'accordo con la Sovrintendenza nel giudicarlo tale da giustificare la protezione della legge citata. Senza entrare nel merito di tale valutazione, non si può non osservare come la conservazione della più o meno pregevole facciata, abbia fino ad oggi impedito qualsiasi soluzione del problema e qualsiasi sistemazione di una piazza così caratteristica di Torino come questa dedicata a Carlo Alberto. Sembra quindi giusta la richiesta di coloro che domandano alla nuova amministrazione cittadina di riaffrontare nuovamente la questione agli organismi preposti alla tutela del nostro patrimonio artistico, sia a quelli che rappresentano gli interessi materiali della popolazione. Non è, questo di piazza Carlo Alberto, il solo «vuoto» che si può scoprire nelle vie del centro. In un periodo come il nostro, in cui tanto forte si sente la necessità di nuovi alloggi, appare quasi incredibile che non si riescano a risolvere le questioni  burocratiche che tuttora impediscono di colmare quei vuoti […….] E' giunto il momento di provvedere, ormai. Molte colpe si attribuiscono all'attuale piano regolatore e alla enorme lentezza con cui procedono gli studi per il nuovo piano, mille volte preannunciato. Almeno di questo, il Comune dovrebbe preoccuparsi immediatamente ed escogitare tutti i mezzi che consentano di porre al più presto termine alle incertezze ed alle dannose improvvisazioni 

Che sia la volta buona?

 Venerdì 31 Dicembre 1954 LA NUOVA STAMPA
Si costruirà il palazzo della Biblioteca nazionale Radicale sistemazione di piazza Carlo Alberto. Un'ispezione di tecnici disposta dal ministro Ermini - Saranno risolti i due problemi: conservare la facciata delle "scuderie,, e spostare il monumento equestre.
Da quanti anni si attende una decisione che risolva il problema estetico-edilizio-urbanistico di piazza Carlo Alberto, compreso quello del famoso muro superstite dell'edificio ch'era in fondo all'antico giardino di Palazzo Carignano?
Recentemente, riferendo la lettera di un indignato cittadino si parlò qui di sconcio: e non a torto; ma del suo perdurare non tutta la colpa va ascritta alle autorità locali, in quanto una definitiva e radicale sistemazione della piazza era connessa con un'altra decisione: quella dell'uso, o no dell'area di là del muro, sul filo di via Bogino, per la costruzione del nuovo indispensabile palazzo della Biblioteca Nazionale, soffocata nei locali di via Po. È il Ministero della Pubblica Istruzione, attraverso la Soprintendenza alle Biblioteche, da decenni tardava a pronunziarsi. Ora s'è pronunziato e lieti, diamo la buona notizia. Lieti anche di sapere che la decisione fu sollecitata da un diretto altissimo interessamento, il più alto immaginabile oggi in Italia, che per tenace affetto mai s'allontana dagli interessi culturali e artistici di Torino, e che in questo caso sortirà duplice felice risultato: la Biblioteca adatta ai nostri studi e la restituzione a dignità della centralissima piazza. In questi giorni, infatti, per disposizione del ministro Ermini, hanno esaminato, in loco, il problema il prof. Giorgio Rosi, ispettore centrale della Direzione Antichità e Belle Arti, il prof. Mazzaracchio della Soprintendenza alle Biblioteche, la prof.ssa Bersano e il prof. Chierici, soprintendenti alle Biblioteche e ai Monumenti del Piemonte e vari altri autorevoli competenti; e riconosciuta l'area suaccennata idonea alla costruzione della Biblioteca anche la questione del muro è stata risolta. Ce ne dispiace per i cittadini indifferenti al caratteristico volto della loro città ansiosi anzi di farla somigliante ad un neonato sobborgo di Chicago o San Paolo, in nome del progresso e del dinamismo moderno; ce ne dispiace per il bellicoso nostro lettore che vorrebbe demolirlo « nottetempo ma il tanto vituperato muro rimarrà. L'ha difeso il soprintendente Chierici e a lui s'è unita con un pressante voto la Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti, presieduta dal dott. Viale, osservando che, destinata la retrostante area a un pubblico edificio, questo «potrebbe assorbire la facciata esistente e conservare quindi un monumento che... manterrebbe in questo ambiente il volto della vecchia Torino, purtroppo già cancellato o alterato in altre parti della città». E poiché da torinesi e da giornali torinesi si son dette e scritte varie sciocchezze sul povero muro» definendolo anche «napoleonico», ricorderemo ch'esso è la facciata della distrutta grande scuderia e rimessa per carrozze dei principi di Carignano, costruita dal valente architetto torinese Filippo Castelli (c. 1740-c. 1820) intorno al penultimo decennio del Settecento, in un gusto cioè fra il declinante Barocco ed il sorgente Neoclassicismo: opera, quindi, di notevole pregio storico ed artistico. Sorgerà dunque in piazza Carlo Alberto la Biblioteca Nazionale di Torino; verso la piazza, imponente dignitosissimo prospetto, potrà esserne la fronte la stessa facciata del Castelli. E' un punto su cui insistiamo, attendendo che si pronunzi in merito — speriamo favorevolmente — il Consiglio Superiore di Antichità e Belle Arti: perchè, per la costruzione della Biblioteca e il definitivo assetto della piazza s'è riconosciuta l'opportunità di bandire un concorso nazionale, e non vorremmo che fra le maglie del bando scappasse fuori il pesciolino della possibilità di far a meno della facciata del Castelli, qualora il nuovo progetto riuscisse così bello da renderla superflua. Del resto, l'inserzione di un pregevole elemento antico in un edificio moderno, può suggerire come ci suggerisce un uomo che se ne intende, l’architetto Midana, ad un artista geniale una soluzione di gran gusto. Altro punti importante: il trasporto del Monumento a Carlo Alberto oggi sacrificato e fuori centro e a ridosso dell’ampliamento (1863) di Palazzo Carignano nella Piazzetta Reale anche per agevolare la circolazione. Chi bandirà il concorso ? La Direzione delle Belle Arti, o quella delle Biblioteche, o il Genio Civile? Chiunque sia, facciamo presto e il Ministero del Tesoro provveda allo stanziamento straordinario dei necessari 600 milioni: generoso una buona volta con Torino.

I lavori iniziano nel 1959. E infine molti anni dopo.....

La Stampa 16/10/1973 
Un gioiello la nuova biblioteca ma il personale è insufficiente. Ha riaperto dopo 16 anni la Nazionale. Un gioiello la nuova biblioteca ma il personale è insufficiente E' costata 3 miliardi - Cervello elettronico, posta pneumatica, tv a circuito chiuso, nastri trasportatori: è modernissima - Funzionerà soltanto per mezza giornata, perché l'organico è scarso.
Ha aperto ieri i battenti, dopo 16 anni, la nuova Biblioteca Nazionale di piazza Carlo Alberto. Alle 8,30 11 primo gruppo di «lettori» ha superato la superba facciata neoclassica di Filippo Castelli ed è entrato nelle modernissime sale in vetro, linoleum ed acciaio. Uno sviluppo complessivo di tremila e trecento metri quadrati, 56 sezioni fra sale di lettura e consultazione, saloni per congressi, auditorium, magazzini; una capacità di 1 milione e mezzo di volumi, facilmente portabile a 2; 17 stazioni di posta pneumatica, un cervello elettronico, telecamere a circuito chiuso in tutti i locali. Il costo complessivo è stato di 3 miliardi. «E pensare, commenta il direttore professor Stello Bassi, che nel '59, all'inizio dei lavori, erano stati concessi in tutto 2OO milioni». Da allora gli stanziamenti hanno consentito di dotare l'edificio di quanto di più moderno sia stato mal fatto in Italia in campo di biblioteche. La «storia» della biblioteca è rimasta legata per 250 anni a quella del Palazzo dell'Università di via Po. In quelle sale un po' polverose, su quel tavoli consunti, sono passate intere generazioni di intellettuali, ricercatori e studenti. «Era un ambiente direi quasi familiare, prosegue il professor Bassi, ma anche se carico di storia e ricordi, ha dovuto lasciare il passo ad uno stile più moderno». Che significa essenzialmente più efficienza, maggiore possibilità di consultazione, una funzionalità superiore in grado di garantire al «lettore» la possibilità di lavorare meglio, più in fretta e con strumenti all'altezza del tempi. Degli 850 mila volumi che costituiscono il patrimonio della Biblioteca Nazionale solo 30 mila sono rimasti nella vecchia sede di via Po. «Nelle prossime settimane, aggiunge il professor Bassi, anche questi saranno portati nel nuovo palazzo». L'edificio di piazza Carlo Alberto è costruito in un unico corpo che raggruppa i locali adibiti al deposito del libri, gli uffici degli impiegati, le sale riservate al pubblico. Questa compattezza architettonica consente, a differenza di quanto succede in altre biblioteche, di compiere agevolmente l'operazione di «trasporto» libri dal magazzino alle sale di lettura e consultazione. Dice il professor Bassi: «Nei prossimi mesi entrerà in funzione un ascensore a catena continua, un "paternoster", dotato di aperture in corrispondenza degli otto plani dell'edificio. Preleverà i libri e li depositerà in corrispondenza di nastri trasportatori. Dagli scaffali, quindi, al tavolo di lettura». Il patrimonio librarlo è custodito come in una banca. Oltre alle telecamere che aiutano il personale nel lavoro di controllo, esistono speciali avvisatori antifumo: basta accendere una sigaretta e squillano le sirene, mentre, nel quadro luminoso della sala controlli, s'accende una luce corrispondente alla sala dove è avvenuto il principio di incendio. Unico neo, la scarsezza di personale. Dice 11 professor Bassi: «L'organico dovrebbe essere composto da 92 persone, non arriviamo a 50». Per questa ragione a Torino non è possibile attuare l'orario continuato dalle 8,30 alle 19,30: «E' già un miracolo garantire l'apertura sino alle 14». Piazza Carlo Alberto: la nuova sede della dietro la facciata del 700.