Visualizzazione post con etichetta Torino. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Torino. Mostra tutti i post

martedì 2 giugno 2020

Il Parco della Rimembranza (o della Maddalena) di Torino

La bellezza di Torino non si rivela al viaggiatore frettoloso. La città  sa come catturare l'attenzione del turista curioso. Un fiume, una collina, un centro storico raccolto che fa si che le distanze tra i luoghi di interesse non siano troppo disperse. E poi ci sono tante piccole curiosità, non sempre facili da scoprire, che richiedono pazienza, ingegno e un pizzico di fortuna. Il Parco della Rimembranza non ha un appeal in grado di trasmettere soavi riflessioni al turista curioso. Per tanti motivi non lo consiglio a chi non ha tempo nè desiderio di riflettere su certi sgradevoli aspetti della  nostra storia patria. 
Rimembranza. Di cosa? Semplice. Di più di 4000 soldati vissuti in città, morti nella Grande Guerra. I loro nomi sono scritti con accanto la data di morte, su dei paletti di legno posti lungo i numerosi sentieri che salgono verso la sommità del Colle. La data di nascita non è riportata, ma è facile immaginare non tanto precedente gli anni 1916, 1917, 1918 che a volte con fatica riusciamo ancora a leggere sui piccoli bronzetti delle steli. Nomi che si ripetono, ordinati alfabeticamente: Mario, Bruno, Remo, Giovanni, Giuseppe.... Di sicuro tutti poco più che adolescenti. 
Saliamo dunque lungo viali i cui nomi, chi più chi meno, sui banchi di scuola ha imparato a conoscere, anche solo per sentito dire: Monte Sei Busi, Podgora, Castelgomberto, Castagnevizza. E' un'ascesa, la nostra, che racchiude un simbolo di grande potenza. Raggiungere in alto sul piazzale della Vittoria la grandissima statua-faro alata di Rubino significa assaporare l'inebriante gusto della  Vittoria ma per farlo dobbiamo soffrire, arrivare anche a morire, lasciando solo una effimera traccia della nostra esistenza racchiusa in piccole targhette metalliche. Ed eccoci in cima, con tutt'attorno il silenzio del pomeriggio estivo, possiamo sederci all'ombra delle poderose membra della dea luciferina (portatrice di luce)  e abbandonare al contempo la disgustosa ipocrita celebrazione di tante morti inutili. I morti sono morti. Accompagnati al macello da generali carnefici con addosso i panni della più bieca retorica della guerra giusta. Ci vuole un po' di fantasia per scorgere in quei nomi che ci hanno accompagnato fin lì, delle persone che sono state straziate nella carne e forse prima ancora, nello spirito. Ancor più difficile è questo pensiero se guardiamo la gente intorno a noi ridere, scherzare o chiacchierare senza nessun ricordo nè consapevolezza di quell'istante ormai lontano più di cento anni in cui  si spegneva una giovane vita. Di sicuro siamo stati bravi nel mascherare queste orribili morti con tutto il corredo ipocrita dell'eroismo, delle fanfare, dei nastrini e delle medaglie, delle celebrazioni rituali. C'è persino un generale tra le migliaia di soldati semplici morti qui ricordati. Il chè è singolare perchè quasi tutti i valorosi generali della nostra Grande Guerra sono deceduti placidi nei loro letti, tra il tintinnio triste delle medaglie e delle decorazioni al merito. 
Non è più così piacevole la scampagnata nel verde pubblico cittadino tra i maestosi carpini bianchi, le querce, i noccioli e le centinaia di specie arboricole messe qui a dimora fin dalla fine degli anni '20. Scendendo verso il fiume, non riusciamo più a pensare a questa immagine diffusa di retorica bellica che parla di eroi immolatisi per una causa suprema. Solo tristezza e rabbia, sentimenti che non si addicono ad una vacanza spensierata in una bella città.


venerdì 24 aprile 2020

Il Maciste di Porta Pila a Torino



Foto postata su Facebook dal signor Mario Anesi.

Correvano gli anni '60 e Torino viveva la prima grande ondata immigratoria. Molti erano partiti dal Sud con la precisa intenzione di trovar posto nella grande industria dell'automobile che in quel decennio si stava configuarando come forza trainante dell'economia cittadina. Non tutti però... Qualcuno non voleva piegarsi alle monotone regole di una vita tradizionale, scandita da immutabili orari e doveri quotidiani. Tra questi Gioacchino Marletta da Catania. Fisico possente, sguardo penetrante, grande capacità circense. Sulla piazza storica dei commerci torinesi, Porta Pila, Gioacchino ogni domenica presentava al pubblico la sua personale rivisitazione dell'arte mimica. Armato di vecchi copertoni d'automobile e di un macigno di granito, intratteneva i suoi habituées con gesti di sfida, inframmezzando piccole e concise affermazioni a farfugliamenti inintellegibili, sempre però accompagnati da sguardi minacciosi di truculenta furia provocatoria. Il raggiungimento del climax era lento, in ascesa graduale, l'acme era costituito dall'innalzamento del macigno in un rituale simbolico di offerta a sconosciute figure soprannaturali... In pochi secondi si passava poi ad una più terrena richiesta di contributi, cappello in mano proteso senza malizia ai partecipanti dell'happening. Gioacchino fu una meteora, che attraversò un intero decennio. Di ciò che fu di lui nei restanti 30 anni che ebbe a vivere, poco o nulla si sa. La piazza era il suo mondo e lì trasse di che sostentarsi con piccoli commerci. Nel 2001 morì in ospedale in solitudine. Ma non fu dimenticato il Maciste di Porta Pila. Il Comune gli riconobbe il merito di avere contribuito a rendere la tetra città del lavoro degli anni del boom, un po' meno triste. Una targa commemorativa nel settore più importante del cimitero monumentale di Torino ricorda la sua figura e la sua lieve traccia umana.  

venerdì 21 febbraio 2020

La Biblioteca Nazionale di Torino: un travaglio di quasi 50 anni.....


Prime attenzioni 
LA STAMPA - Giovedì 11 Agosto 1936
Chi è l'autore del palazzotto di piazza Carlo Alberto? Dopo le animate discussioni, a cui La Stampa non si è tenuta estranea, sopra l'importanza e i pregi artistici (inesistenti) del palazzotto destinato a cedere il posto alla nuova Biblioteca Nazionale in piazza Carlo Alberto, nulla sembra cambiato e tutto si direbbe ancora allo statu quo. Ma a quanto ci si assicura, non sembra lontano il giorno in cui un piccone si abbatterà su quei muri già caratterizzati dai segni premonitori, di giorno in giorno più evidenti, dell'abbandono assoluto. Il palazzo della Biblioteca in progetto si protenderà di ben cinque metri oltre la fronte del fabbricato attuale. La cadente e non bella scenografia pertanto è condannata in ogni caso a sparire. I suoi lodatori, a quanto si dice, avranno tuttavia la soddisfazione di rivedere quella stessa scenografia, vera fenice della favola, ricostruita più o meno fedelmente sulla facciata stessa della Biblioteca prospiciente la piazza. Queste le voci correnti. Ma senza mancare di riguardo a nessuno, c'è poco da plaudire a quella parte almeno del programma che si riferisce alla ricostruzione. Poiché non si vede chi ne potrà rimanere soddisfatto. Chi ama la storia non si lascerà illudere o sedurre da una piatta imitazione: chi ama l'arte trova difficile che quell'edificio possa essere ravvivato ed essere reso appena più sopportabile dall'opera di un architetto più o meno novecentista. Senza prevenzioni, il nostro discorso non vorrebbe essere che l'epicedio o elogio funebre, di un'opera architettonica della quale presto non rimarrà che il ricordo.
Discussa paternità.
Quando si entra come quando si esce dalla scena del mondo è di prammatica un regolare stato civile. Ora parrà strano che la data stessa approssimativa di nascita, nonché la paternità del fabbricato in questione, risultino ancora tutt'altro che chiaramente definite. Per alcuni quella costruzione risale infatti alla prima metà del secolo scorso, per altri alla fine del Settecento. A seconda dei giudizi cambiano, naturalmente, la paternità artistica e le circostanze determinanti. Trattandosi però di storia moderna, la questione non dovrebbe essere poi troppo difficile da risolvere. Vediamo che cosa dicono in proposito gli specialisti di storia edilizia torinese. In un recente e dotto lavoro su "L'architettura in Torino durante la prima metà dell'Ottocento" l'ing. Eugenio Olivero attribuisce senz'altro la «bassa facciata, in stile neo-classico e quasi impero», a Filippo Castelli: un architetto forse piemontese, il quale svolgeva la sua attività professionale in Torino negli ultimi decenni del secolo XVIII. Però si tratta di una semplice ipotesi e non di un dato di fatto positivamente accertato. Anche un'ipotesi, tuttavia, quando emani da un profondo conoscitore, anzi da uno specialista, merita tutta l'attenzione. Perciò appunto se ne fa cenno. In un lavoro alquanto meno recente, pur esso interessante e ricco di notizie, su Lo sviluppo edilizio di Torino dalla Rivoluzione francese {Torino, 1918), l'ing. Camillo Boggio riporta alcune notizie di un'importanza forse decisiva nei riguardi detta controversa attribuzione. Secondo il Boggio la formazione dell'attuale piazza Carlo Alberto risale a circa un secolo fa, ed esattamente al 1833, in rapporto al piano e alla relazione dell'architetto Ignazio Michela, del due febbraio di quell'anno. Sino a tale data l'area compresa tra il palazzo Carignano e il fabbricato antistante a est, era notoriamente occupata dal giardino dello stesso palazzo Carignano e chiusa a nord e a sud da due muri di allacciamento tra i due fabbricati: il palazzo e le scuderie. Da caserma a Scuola dì guerra Il re Carlo Alberto (come riferisce il Boggio) «alienò alla città di Torino quel terreno, che fu ridotto a piazza » con la demolizione dei muri di cinta. Non sappiamo come si presentasse la fronte dette antiche scuderie verso il palazzo Carignano, mancando di ciò ogni testimonianza. Sappiamo che per un certo tempo, sino oltre il 1851, il fabbricato già delle scuderie fu adibito, con gli opportuni adattamenti, a «quartiere» o caserma dei Granatieri. 
Già nel 1856 però, quando ancora si discuteva alla Camera intorno alla migliore collocazione del progettato monumento a Carlo Alberto (inaugurato nel 1861) il fabbricato ospitava l'Istituto Tecnico. Nel 1880 esso era già divenuto sede detta R. Scuola di Guerra. Tutte queste diverse e sempre più importanti destinazioni (caserma, scuola media, scuola superiore) ci costringono a ritenere che la costruzione venisse rinnovata di sana pianta, esternamente come internamente, sin dalla prima trasformazione dell'area da giardino privato a pubblica piazza. Conclusione questa, la quale trova la sua piena conferma nello stile e nella decorazione della facciata, che, a considerarla attentamente, assai poco ha di neoclassico e molto invece, per così dire, di basso impero. L'abbondanza dei trofei e dei motivi militari in genere, lo spreco di aquile e di festoni, di elmi e di bandiere, lo stemma sabaudo centrale, fanno effettivamente ritenere che l'architetto avesse in mente una destinazione dell'edificio a carattere militare. Fu Ignazio Michela autore di quella facciata? La cosa è più che probabile, poiché se è vero che il Michela ebbe a lavorare alla Curia Maxima o Corte d'Appello, che è di uno stile severo, rigorosamente neoclassico, è anche vero che per la Curia Maxima egli non ebbe che a completare quanto era stato fatto o progettato da altri (Filippo Juvara, Benedetto Alfieri), mentre per la piazza Carlo Alberto egli potè scapricciare il suo genio classico barocco. Se altri vorrà riprendere e integrare la storia, qui appena accennata, del morente palazzotto, con la omissione della sua ultima metamorfosi in ufficio telegrafico, renderà senza dubbio un utile contributo atta storia edilizia torinese. Fino a quel giorno, però, crediamo che intorno ai modesto e presuntuoso fabbricato del Michela non si siano mai spese tante fatiche quante ne riassume in breve questo non commosso epicedio.

Il problema del "muro" torna di attualità

Giovedì 12 Luglio 1951 LA NUOVA STAMPA 

URGENTI PROBLEMI DI EDILIZIA CITTADINA
Un ingombrante muro impedisce la sistemazione di una piazza
Restano parecchie aree vuote da colmare nel centro della città. Necessità di varare al più presto il nuovo piano regolatore.
Tra i numerosi problemi di carattere urbanistico che la nuova amministrazione dovrà sollecitamente affrontare, non ultimo è quello di una definitiva sistemazione di Piazza Carlo Alberto. Tale piazza è a tutt’oggi delimitata nel lato di fronte al Palazzo Carignano, dalle antiche scuderie, edificio in stile neoclassico eretto sulla fine del sec. XVIII su disegno dell'architetto Filippo Castelli. Di esso però non esiste più che la facciata, ancora in piedi tra la piazza e l'area retrostante distrutta. E' venuto quindi a crearsi in pieno centro cittadino un altro vuoto che non contribuisce certo al decoro della città. In questi ultimi sei anni l'interesse dei costruttori non ha mancato di rivolgersi anche alla zona delle antiche scuderie dei Carignano, ma l'esistenza della facciata ha scoraggiato tutti i progettisti. Essa infatti è stata dichiarata sotto il vincolo della legge 1° giugno 1939 n. 1089 per la tutela delle cose di interesse storico-artistico; in altri termini, nessuno può abbatterla per costruire un edificio completamente nuovo.Veglia infatti sulla sua conservazione la Sovrintendenza ai monumenti, la quale al massimo sembra disposta a lasciar sorgere un nuovo edificio a patto che esso incorpori nella sua integrità il vecchio muraglione. Sul valore, storico-artistico della facciata, non tutti sono d'accordo con la Sovrintendenza nel giudicarlo tale da giustificare la protezione della legge citata. Senza entrare nel merito di tale valutazione, non si può non osservare come la conservazione della più o meno pregevole facciata, abbia fino ad oggi impedito qualsiasi soluzione del problema e qualsiasi sistemazione di una piazza così caratteristica di Torino come questa dedicata a Carlo Alberto. Sembra quindi giusta la richiesta di coloro che domandano alla nuova amministrazione cittadina di riaffrontare nuovamente la questione agli organismi preposti alla tutela del nostro patrimonio artistico, sia a quelli che rappresentano gli interessi materiali della popolazione. Non è, questo di piazza Carlo Alberto, il solo «vuoto» che si può scoprire nelle vie del centro. In un periodo come il nostro, in cui tanto forte si sente la necessità di nuovi alloggi, appare quasi incredibile che non si riescano a risolvere le questioni  burocratiche che tuttora impediscono di colmare quei vuoti […….] E' giunto il momento di provvedere, ormai. Molte colpe si attribuiscono all'attuale piano regolatore e alla enorme lentezza con cui procedono gli studi per il nuovo piano, mille volte preannunciato. Almeno di questo, il Comune dovrebbe preoccuparsi immediatamente ed escogitare tutti i mezzi che consentano di porre al più presto termine alle incertezze ed alle dannose improvvisazioni 

Che sia la volta buona?

 Venerdì 31 Dicembre 1954 LA NUOVA STAMPA
Si costruirà il palazzo della Biblioteca nazionale Radicale sistemazione di piazza Carlo Alberto. Un'ispezione di tecnici disposta dal ministro Ermini - Saranno risolti i due problemi: conservare la facciata delle "scuderie,, e spostare il monumento equestre.
Da quanti anni si attende una decisione che risolva il problema estetico-edilizio-urbanistico di piazza Carlo Alberto, compreso quello del famoso muro superstite dell'edificio ch'era in fondo all'antico giardino di Palazzo Carignano?
Recentemente, riferendo la lettera di un indignato cittadino si parlò qui di sconcio: e non a torto; ma del suo perdurare non tutta la colpa va ascritta alle autorità locali, in quanto una definitiva e radicale sistemazione della piazza era connessa con un'altra decisione: quella dell'uso, o no dell'area di là del muro, sul filo di via Bogino, per la costruzione del nuovo indispensabile palazzo della Biblioteca Nazionale, soffocata nei locali di via Po. È il Ministero della Pubblica Istruzione, attraverso la Soprintendenza alle Biblioteche, da decenni tardava a pronunziarsi. Ora s'è pronunziato e lieti, diamo la buona notizia. Lieti anche di sapere che la decisione fu sollecitata da un diretto altissimo interessamento, il più alto immaginabile oggi in Italia, che per tenace affetto mai s'allontana dagli interessi culturali e artistici di Torino, e che in questo caso sortirà duplice felice risultato: la Biblioteca adatta ai nostri studi e la restituzione a dignità della centralissima piazza. In questi giorni, infatti, per disposizione del ministro Ermini, hanno esaminato, in loco, il problema il prof. Giorgio Rosi, ispettore centrale della Direzione Antichità e Belle Arti, il prof. Mazzaracchio della Soprintendenza alle Biblioteche, la prof.ssa Bersano e il prof. Chierici, soprintendenti alle Biblioteche e ai Monumenti del Piemonte e vari altri autorevoli competenti; e riconosciuta l'area suaccennata idonea alla costruzione della Biblioteca anche la questione del muro è stata risolta. Ce ne dispiace per i cittadini indifferenti al caratteristico volto della loro città ansiosi anzi di farla somigliante ad un neonato sobborgo di Chicago o San Paolo, in nome del progresso e del dinamismo moderno; ce ne dispiace per il bellicoso nostro lettore che vorrebbe demolirlo « nottetempo ma il tanto vituperato muro rimarrà. L'ha difeso il soprintendente Chierici e a lui s'è unita con un pressante voto la Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti, presieduta dal dott. Viale, osservando che, destinata la retrostante area a un pubblico edificio, questo «potrebbe assorbire la facciata esistente e conservare quindi un monumento che... manterrebbe in questo ambiente il volto della vecchia Torino, purtroppo già cancellato o alterato in altre parti della città». E poiché da torinesi e da giornali torinesi si son dette e scritte varie sciocchezze sul povero muro» definendolo anche «napoleonico», ricorderemo ch'esso è la facciata della distrutta grande scuderia e rimessa per carrozze dei principi di Carignano, costruita dal valente architetto torinese Filippo Castelli (c. 1740-c. 1820) intorno al penultimo decennio del Settecento, in un gusto cioè fra il declinante Barocco ed il sorgente Neoclassicismo: opera, quindi, di notevole pregio storico ed artistico. Sorgerà dunque in piazza Carlo Alberto la Biblioteca Nazionale di Torino; verso la piazza, imponente dignitosissimo prospetto, potrà esserne la fronte la stessa facciata del Castelli. E' un punto su cui insistiamo, attendendo che si pronunzi in merito — speriamo favorevolmente — il Consiglio Superiore di Antichità e Belle Arti: perchè, per la costruzione della Biblioteca e il definitivo assetto della piazza s'è riconosciuta l'opportunità di bandire un concorso nazionale, e non vorremmo che fra le maglie del bando scappasse fuori il pesciolino della possibilità di far a meno della facciata del Castelli, qualora il nuovo progetto riuscisse così bello da renderla superflua. Del resto, l'inserzione di un pregevole elemento antico in un edificio moderno, può suggerire come ci suggerisce un uomo che se ne intende, l’architetto Midana, ad un artista geniale una soluzione di gran gusto. Altro punti importante: il trasporto del Monumento a Carlo Alberto oggi sacrificato e fuori centro e a ridosso dell’ampliamento (1863) di Palazzo Carignano nella Piazzetta Reale anche per agevolare la circolazione. Chi bandirà il concorso ? La Direzione delle Belle Arti, o quella delle Biblioteche, o il Genio Civile? Chiunque sia, facciamo presto e il Ministero del Tesoro provveda allo stanziamento straordinario dei necessari 600 milioni: generoso una buona volta con Torino.

I lavori iniziano nel 1959. E infine molti anni dopo.....

La Stampa 16/10/1973 
Un gioiello la nuova biblioteca ma il personale è insufficiente. Ha riaperto dopo 16 anni la Nazionale. Un gioiello la nuova biblioteca ma il personale è insufficiente E' costata 3 miliardi - Cervello elettronico, posta pneumatica, tv a circuito chiuso, nastri trasportatori: è modernissima - Funzionerà soltanto per mezza giornata, perché l'organico è scarso.
Ha aperto ieri i battenti, dopo 16 anni, la nuova Biblioteca Nazionale di piazza Carlo Alberto. Alle 8,30 11 primo gruppo di «lettori» ha superato la superba facciata neoclassica di Filippo Castelli ed è entrato nelle modernissime sale in vetro, linoleum ed acciaio. Uno sviluppo complessivo di tremila e trecento metri quadrati, 56 sezioni fra sale di lettura e consultazione, saloni per congressi, auditorium, magazzini; una capacità di 1 milione e mezzo di volumi, facilmente portabile a 2; 17 stazioni di posta pneumatica, un cervello elettronico, telecamere a circuito chiuso in tutti i locali. Il costo complessivo è stato di 3 miliardi. «E pensare, commenta il direttore professor Stello Bassi, che nel '59, all'inizio dei lavori, erano stati concessi in tutto 2OO milioni». Da allora gli stanziamenti hanno consentito di dotare l'edificio di quanto di più moderno sia stato mal fatto in Italia in campo di biblioteche. La «storia» della biblioteca è rimasta legata per 250 anni a quella del Palazzo dell'Università di via Po. In quelle sale un po' polverose, su quel tavoli consunti, sono passate intere generazioni di intellettuali, ricercatori e studenti. «Era un ambiente direi quasi familiare, prosegue il professor Bassi, ma anche se carico di storia e ricordi, ha dovuto lasciare il passo ad uno stile più moderno». Che significa essenzialmente più efficienza, maggiore possibilità di consultazione, una funzionalità superiore in grado di garantire al «lettore» la possibilità di lavorare meglio, più in fretta e con strumenti all'altezza del tempi. Degli 850 mila volumi che costituiscono il patrimonio della Biblioteca Nazionale solo 30 mila sono rimasti nella vecchia sede di via Po. «Nelle prossime settimane, aggiunge il professor Bassi, anche questi saranno portati nel nuovo palazzo». L'edificio di piazza Carlo Alberto è costruito in un unico corpo che raggruppa i locali adibiti al deposito del libri, gli uffici degli impiegati, le sale riservate al pubblico. Questa compattezza architettonica consente, a differenza di quanto succede in altre biblioteche, di compiere agevolmente l'operazione di «trasporto» libri dal magazzino alle sale di lettura e consultazione. Dice il professor Bassi: «Nei prossimi mesi entrerà in funzione un ascensore a catena continua, un "paternoster", dotato di aperture in corrispondenza degli otto plani dell'edificio. Preleverà i libri e li depositerà in corrispondenza di nastri trasportatori. Dagli scaffali, quindi, al tavolo di lettura». Il patrimonio librarlo è custodito come in una banca. Oltre alle telecamere che aiutano il personale nel lavoro di controllo, esistono speciali avvisatori antifumo: basta accendere una sigaretta e squillano le sirene, mentre, nel quadro luminoso della sala controlli, s'accende una luce corrispondente alla sala dove è avvenuto il principio di incendio. Unico neo, la scarsezza di personale. Dice 11 professor Bassi: «L'organico dovrebbe essere composto da 92 persone, non arriviamo a 50». Per questa ragione a Torino non è possibile attuare l'orario continuato dalle 8,30 alle 19,30: «E' già un miracolo garantire l'apertura sino alle 14». Piazza Carlo Alberto: la nuova sede della dietro la facciata del 700.


mercoledì 31 luglio 2019

La storia di Riccardo Gualino. I suoi figli. Aspetti minori di una legittima curiosità.


Una mostra per raccontare un grande collezionista e la sua storia straordinaria: I mondi di Riccardo Gualino collezionista e imprenditore nelle Sale Chiablese dei Musei Reali di Torino.
Mostra molto bella, esaustiva... una sola visita è insufficiente per capire la complessità del personaggio e il periodo storico in cui muove i suoi passi di imprenditore illuminato...
Spinto dalla curiosità, mi son procurato anche il recente testo di Caponetti che, in forma romanzata, basandosi però su una puntigliosa ricerca su documenti reali, traccia un compendio della vita di Gualino: Il Grande Gualino Ed. UTET, 2018 pag.448  (https://www.utetlibri.it/libri/il-grande-gualino/)

Però... C'è un semplice "però" che mi lascia insoddisfatto. Sia nella mostra di Palazzo Chiablese che nel libro di Caponetti, nulla o quasi viene detto della famiglia del grande biellese. C'è abbondantemente riportata la dimensione sociale e mondana in cui i due (Riccardo e Cesarina) si muovevano. Ci sono le corpose amicizie, le relazioni infinite col mondo della cultura, dell'industria e della politica, che attraversano buona parte del secolo. Ma della dimensione intima familiare della coppia non c'è nulla. I Gualino hanno due figli. Di loro non sappiamo pressochè nulla. Qua e là si legge che ambedue avevano problemi di salute, per il resto è quasi impossibile sapere la data di morte e le vicende che costituiscono la loro esistenza. Nella lettera testamento redatta da Riccardo per la moglie Cesarina, negli ultimisssimi tempi della sua vita, si accenna a Lili (la secondogenita) e della signorina che l'assiste. Sono riportati in maniera puntigliosa i costi relativi alle spese di sostentamento di Lili come  pure i consigli per ottenere un risparmio sulle spese stesse. Tenendo conto dell'altissimo tenore di vita cui era abituata la consorte del nostro personaggio e della evidente leggerezzza con cui la stessa diede fondo a tutti i suoi averi, non stupisce il tenore notarle con cui questo interessante documento venne redatto. Un altro accenno si trova nella testimonianza di una serata a teatro di Sion Segre Aimar ne le Sette storie del Numero 1 (1979): “Nel primo ordine, quasi in centro, il palco dei Gualino.... Sul davanti, appoggiata al davanzale la figlia cieca. Non mancava mai, neppure ai balletti dei Salharoff, o all’Abima, dove tutto era mimica”. A pagina 203 del libro di Caponetti si legge un altro stralcio illuminante di quella che era il ménage della famiglia: "...mai un attimo di tregua, di vita normale; non c'era spazio, non c'era tempo non c'era modo di vivere un sereno rapporto famigliare e coniugale. Forse non ce n'era neanche voglia" Dopo varie ricerche trovo il pregevole sito http://www.teatroestoria.it/materiali/Il_caso_GUALINO.pdf in cui si possono desumere le date di nascita di Lili (1908) e del secondogenito Renato nel 1912. Viene confermata la cecità della primogenita già alla nascita. 
Dicevo della piacevole scorrevolezza che si avverte nelle lettura del libro di Caponetti. Infastidisce d'altro canto il taglio agiografico dato al personaggio, che in quella perfezione di carattere, nella mancanza apparente di debolezze appare a tratti molto poco credibile avvolto com'è in quella realtà romanzata su cui l'Autore ha costruito tutto il progetto biografico.

domenica 18 febbraio 2018

Vite di sconosciuti: Rosa ed Evaristo

Quando Rosa sposa Evaristo lui ha già 54 anni ed è pensionato. Lei ha quasi 30 anni in meno, 25.  Appena una manciata di giorni prima di Natale, siamo nel 1927, viene celebrato il loro matrimonio, prima civile poi religioso.  Da inizio anno è stata istituita la tassa sul celibato: chissà se questo ha spinto i nostri due protagonisti a regolarizzare la loro posizione... Ma il '27 è anche un anno che registra tragici eventi: Sacco e Vanzetti vengono giustiziati negli Stati Uniti, il piroscafo Principessa Mafalda affonda al largo delle coste brasiliane causando oltre 600 vittime mentra a fine anno una scossa di terremoto nei Colli Albani rade al suolo la città di Nemi. Nulla ci dice se Rosa ed Evaristo furono consapevoli di questi fatti nè tantomeno ci è noto quel che provarono. Lui, data l'età, di sicuro leggeva le notizie sui quotidiani, lei viveva nell'ombra di lui completamente appagata dal suo amore e dalle sue attenzioni. Quel poco che sappiamo della coppia è racchiuso nelle pagine di un volume che nel 1937 veniva consegnato agli sposi in occasione della cerimonia matrimoniale.
Il volume era corposo di più di 100 pagine, suddiviso in sezioni


L'ossessione del fascismo per incrementare la natalità che nel trentennio del '900 aveva subito un preoccupante calo, viene qui esaltata al massimo grado. Anche le numerose inserzioni pubblicitarie contenute nel volume sono un chiaro invito demografico...
Il libro cartonato rosso che reca la scritta OMAGGIO AGLI SPOSI è usato come un semplice diario senza date, con vari pensieri e ricordi della vita trascorsa assieme. Non segue i capitoli stampati se non nella compilazione delle ricorrenze più importanti fidanzamento e matrimonio. Nelle numerosissime pagine dedicate a "I NOSTRI FIGLI" Rosa scrive i suoi piccoli ricordi, quasi sempre rievocazione di tempi felici della vita in comune. Il tutto sembra essere stato composto negli ultimi anni di vita, una specie di riassunto a posteriori. Rosa non ha avuto una vita felice prima dell'incontro con Evaristo. Scrive: "tutte le tristezze che la vita mi ha dato tu caro Evaristo con la tua dolcezza e bontà hai saputo rendermi felice". Certo periodare di alcuni passi sembra indicare una istruzione di Rosa medio bassa. Altre frasi suggeriscono che Rosa aveva un lavoro che la impegnava fino a sera. Evaristo le raccomandava spesso di riposarsi  perchè  "domani sarà un altro giorno di lavoro". Forse la differenza di età ha contribuito a far sì che il matrimonio fu sterile. Questo nonostante la pressione ideologica non certo leggera che il fascismo esercitò nel campo della demografia: Rosa ed Evaristo vissero gran parte della loro vita coniugale sotto la dittatura fascista. Non c'è traccia nelle pagine di grandi avvenimenti dolorosi. Molte estati li videro in villeggiatura alle porte di Torino, C'è al proposito una sintesi delle vacanze. Dal 1930 per 5 anni passano le ferie nel Canavese in una frazione di Corio: lunghe passeggiate in montagna alla ricerca di ciclamini o funghi, entrambi felici e spensierati. Lui è un buon camminatore e anche quando Rosa sale a fatica su per una mulattiera lui riesce sempre a trovare una parola di incoraggiamento. Dal 1940 al '45 le vacanze le trascorrono a Coassolo. Nel settembre 1954 i coniugi fanno il loro ultimo viaggio, in autunno, a Roma e Napoli. Un anno più tardi Evaristo muore.
Nel autunno del 1958 Rosa confessa alle pagine di questo che è divenuto un diario per pensieri sparsi, la sua solitudine. Evaristo era il centro della sua vita con i suoi consigli e con la sua sola presenza. E' triste, Rosa, confessa che solo nella preghiera trova la forza di continuare a vivere.


E' questa l'ultima traccia scritta lasciata da Rosa. Evaristo è ormai morto da 5 anni, il ricordo di lui sempre vivo nei giorni. 
Ho cercato a lungo nel web tracce del loro passato terreno, senza successo. Rosa nè tantomeno Evaristo risultano sepolti a Torino. La moglie di uno dei due testimoni di nozze muore nel 1965 ma neanche di lei esiste traccia se non nel necrologio. Ho omesso i cognomi, nonostante siano passati molti anni dalle vicende dei nostri due per rispetto della privacy. 


sabato 14 ottobre 2017

Mirò: ma questa è arte?

Premetto: non sono un appassionato di arte moderna ma nei tanti anni che mi han visto frequentatore di tantissimi musei in giro per l'Europa, ho apprezzato pur con una riserva mentale tante opere definite dai critici capolavori. Sarà pur vero che all'arte moderna devi essere introdotto, istruito e preparato. Non è arte figurativa di fronte a cui puoi porti nella maniera più umile e semplice possibile (mi piace/non mi piace). Nell'arte moderna il campo comunicativo si allarga. Intervengono reazioni quali "cosa significa? cosa ritrae? " che anche se sbagliate come approccio sono umanamente comprensibili. Intervengono pure reazioni affettivamente più complesse come irritazione (ma perchè perdo tempo a vedere questi imbrattatele) o autoreferenziali (questo schifo son capace anch'io di dipingerlo).
Tutto questo preambolo per dire che sono appena stato alla mostra su Mirò che si tiene a Palazzo Chiablese a Torino. Mai visita fu più veloce e inapprezzata. Conoscevo poco Mirò per averne visto riproduzioni e tele sparse qua e là nei vari musei. Così tante opere raggruppate in mostra non le avevo ancora viste. All'uscita mi son chiesto cosa ci fosse dietro la magnificazione di un simile artista. Sappiamo come da sempre i critici che contano possano creare  distruggere l'immagine di un artista tanto più se parliamo di arte moderna dove le fumose chiacchiere che puntellano una carriera o una serie di opere sono fondamentali. Ebbene in nessun quadro di Mirò son riuscito a cogliere il sublime graffio del genio. Scarabocchi mi son parsi, macchie di colore messo lì a caso (la famosa e per certi versi fuorviante "ispirazione") non un solo tratto che ti riveli l'artista che cova sotto i colori e i simboli. Anche Picasso ha dipinto quadri discutibili ma in lui anche il profano riesce a cogliere le stimmate dell'arte. Mirò no. E se vogliamo andare a quel volpone di Dalì che ha usato un marketing furbesco geniale, anche lui rivela non tanto nella logorroica fantasia quanto nel disegno una scuola non comune. Perchè è questo che io voglio riconoscere in un pittore, il tratto che supera il virtuosismo per trasformarsi in arte. Se non sai disegnare, detto terra terra, sei un imbrattatele al di là di quanto puoi aver avuto dagli onnipresenti critici. Forse il punto chiave di tutta l'arte moderna sta proprio nel fatto che è proprio che i quadri spesso non sono spiegabili razionalmente e il titolo non aiuta quasi mai. Viene comunque il sospetto che neanche al pittore è chiaro cosa ha dipinto. La fortuna di molti artisti moderni è stata quella di avere incontrato il favore della critica. Il connubio interessato/disinteressato, a seconda dei casi, tra critico e artista genera il successo dell'opera e la inserisce in un circuito di apprezzamenti universali. Ma ciò presta il fianco, ahinoi, a molti maliziosi scenari….  

martedì 23 maggio 2017

Piazza Valdo Fusi: storia di un orrore

Nell'orrida sistemazione della grande piazza, voluta da un improvvido assessore di tanti anni fa, sorge infossata una pista da skate. Non si può dire che si tratti di un manufatto degno degno di attenzione, tutto è minimale e solo la passione e la buona volontà dei ragazzi che la frequentano la nobilita e rende utile. Tutt'attorno c'è la celebrazione di quel che non bisogna fare (in senso urbanistico ma soprattutto di scienza dei materiali) nel concepire uno spazio pubblico: ampi spazi irragionevolmente vuoti, lastre di cemento che si sbriciolano col passare degli anni, graffiti a testimoniare un po' ovunque l'imbeccillità che non perde mai l'occasione di esporre su muri, griglie o vetri il vuoto mentale degli autori. E dire che il grande spazio prospiciente il vecchio ospedale San Giovanni Battista per quasi tutta la prima metà del secolo scorso vide ospitata nientemeno che la sede del Politecnico e in precedenza del Regio Museo Industriale. Ci pensarono i bombardamenti della seconda guerra mondiale nel 1943 a radere al suolo tutto l'isolato che così rimase spoglio per un cinquantennio circa. Non che il colpo d'occhio della vecchia piazza antecedente il 2005 fosse migliore. Avevamo allora una distesa piatta. con qualche esile alberello, adibita a parcheggio: a quei tempi l'intera area era taglieggiata da individui che praticavano indisturbati ogni sorta di attività: posteggiatori abusivi, ricettatori che tentavano di piazzare merce rubata, tossici e da ultimi zingari assillanti. Questo almeno ora è scomparso. Quel che rimane è la bruttezza del cratere di cemento. Ci provò i celebre Alvar Aalto a formulare un bel progetto con tanto di centro alberghiero e centro congressi, aperto verso ovest con tanto verde e aree pedonali: forse troppo grandioso e futuribile per le ristrette menti sabaude degli amministratori cittadini.....
Da allora sono passati  anni, tanti, è cambiato anche il secolo e questi grandiosi progetti sono ormai caduti nell'oblio. Resta l'immonda ferita del tessuto urbano cui tutti chi più, chi meno, han fatto l'abitudine. Rimane il rimpianto di non poter vedere una targa commemorativa che reciti:



domenica 30 aprile 2017

Piazza Madama Cristina a Torino: commerci, vicende e cronaca nera



Piazza Madama Cristina, da sempre il cuore pulsante  del quartiere di San Salvario, fu teatro fin dalle origini a coloriti episodi di vita cittadina, nel bene e nel male... Il mercato che fin dalla metà dell'800 ha animato la piazza, con le sue caratteristiche di luogo di incontro, di affari leciti e non, ha certamente contribuito ad alimentare gli episodi di cronaca. La riottosità degli ambulanti era una costante di molte notizie sempre concludentesi con trasferimenti in ospedale o in questura a seconda dei casi.  Un altro elemento di instabilità era fornito dalle osterie e dalle cantine che si affacciavano sulla piazza: qui nascevano spesso, complici gli eccessi nel bere, liti e diverbi che vedevano nell'uso del coltello o del bastone il tragico epilogo. Bisogna dire che le cronache di fine '800 erano molto più attente di oggi a dare grande risalto a ogni fatterello che si discostasse dalla tranquilla laboriosità della comunità del quartiere. Le notizie erano quasi costantemente dei semplici trafiletti di una decina di righe in seconda o terza pagina. L’occhio attento del cronista riusciva a sintetizzare in poche parole drammi sociali molto spesso di povertà e malattia. E’ per esempio del 1885 la notizia di un facchino 22enne che è vittima di un attacco epilettico in piazza. Soccorso da una guardia urbana dichiara di essere  digiuno da 30 ore: la stessa guardia provvede a rifocillarlo in una vicina trattoria con pane minestra e vino. La stessa notizia, questa volta con nome e cognome dello sventurato, si ripresenta due  anni dopo: nuovamente in piazza il facchino giace semi assiderato e affamato. Di nuovo una guardia lo soccorre e provvede al pasto…  La piazza era da molti anni sede di un animato mercato di quartiere: la Stampa riporta la richiesta dei commercianti di poter disporre di una tettoia come riparo dalle intemperie. Ma sette anni dopo la questione tettoia sembra ancora lungi dall'essere portata a compimento...Migliorano invece la viabilità e i collegamenti col centro città: un' ippoferrovia da Porta Milano (Porta Palazzo) arriverà in piazza Madama per poi volgere verso il Valentino. Nel mese di agosto 1878 un trafiletto riporta "Gioite abitanti di Piazza Madama Cristina... Domani si aprirà la nuova linea di tramways che collegherà Porta Palazzo con la piazza trasportandovi un'immensità di popolo!"  Il tutto in 18 minuti al costo di 10 centesimi. La cronaca nera rimane confinata a risse per motivi di gelosia ("gelosia di donne" cita l'articolo de La Stampa) o per liti familiari. Un "fabbro, laborioso e di cuore" all'uscita da un'osteria di Piazza Madama, viene alle mani col figlio Giuseppe accusato di condurre una vita scostumata (pretendeva infatti di far vivere more uxorio nella famiglia d'origine la sua amante). Bastonato dal padre, Giuseppe, in evidente stato di ubriachezza, risponde con una stilettata uccidendo il genitore ("rendendolo freddo cadavere"). I traffici nel mercato non sono sempre onesti soprattutto a livello igienico. Ma la polizia municipale veglia: Stamani sul mercato di Piazza Madama Cristina vennero sequestrati e distrutti 30 poponi guasti. Benissimo! Il giorno successivo un'altra notizia dello stesso tenore riporta la distruzione di ben 259 poponi immaturi o guasti.. Siamo nel 1884. Le insidie alla morale pubblica non possono mancare alla piazza. Al n. 4 si è insediata una casa di malaffare (proprietario tal Crotta...) che suscita la vibrata protesta di molti inquilini e commercianti disturbati dall'immorale via vai di clienti. La protesta sembra non avere effetto alcuno se l’anno successivo nel 1889 una ventiduenne di mala vita tenta di fuggire gettandosi dalla finestra ma riporta nella caduta gravi lesioni alla schiena. Nell'ultimo decennio il fenomeno della prostituzione sembra allargarsi in maniera preoccupante se nella rubrica "La valigia del Pubblico", un lettore si scaglia contro le veneri da strapazzo che popolano la piazza e che con i loro immondi schiamazzi non lasciano i residenti riposare in pace dalle fatiche giornaliere.  I drammi si susseguono. Nel cortile di un edificio al numero 3, è rinvenuto un feto di 5 mesi in un canaletto di scolo delle acque nere. Piazza madama Cristina dispone di un servizio di vigilanza di guardie civiche attivo nelle ore di mercato: non è infrequente infatti il ricorso ai loro servizi visto il numero non piccolo di episodi di bastonature e accoltellamenti tra i frequentatori del luogo. In una lite all'uscita dalla cantina Campia al n.7 si ebbero nel 1892 ben 6 feriti, tra uomini e donne, fruttivendoli con i banchi sul mercato. Nel 1896 in piazza Madama c'erano i platani: lo si legge nel resoconto dei danni provocati da un uragano con grandine che si abbattè il 24 giugno sulla città: volarono lamiere di zinco della tettoia (finalmente costruita!) e alcuni alberi della piazza furono letteralmente denudati. Il nuovo secolo incalza ma la piazza non sembra cambiare abitudini.... il cuore pulsante di San Salvario ci regalerà ancora per tanti lustri drammi e vivaci quadri di vita popolare.

mercoledì 26 aprile 2017

Alfonso di Piazza Bodoni


Al tramonto


Quando La Marmora morì il giorno prima dell'Epifania del 1878 tra i familiari che seguivano il feretro c'era anche il suo amato cavallo, velato di bruno...... Nella scritta bronzea sul basamento di pietra che sostiene il cavaliere troviamo uno degli epiodi più gloriosi della sua vita militare, la guerra di Crimea che proiettò il novello Regno d'Italia tra le grandi potenze europee, frutto questo dell'acume politico di Cavour. Ricca fu la vicenda umana del più giovane dei quattro fratelli di insigne famiglia biellese, Alfonso. La sua figura, indissocialbile dalla presenza scenica del sottostante equino, appare a certe ore del giorno, soprattutto al tramonto, più simile ad un Buffalo Bill risorgimentale che ad un valoroso soldato del Regio Esercito. I tratti del volto, bruniti dal tempo, non mostrano la bruttezza del maturo Alfonso (a quei tempi 51enne). Il cavallo è rilassato. La zampa sinistra sollevata più che fiera posa di parata, sembra rammentare un' indole dubbiosa del tipo "che fare e dove andare?"
Ma via... lasciamo queste oziose considerazioni  e cerchiamo di cogliere la bellezza di questo monumento equestre calato nell'armonia della piazza circostante. Poche piazze in Torino racchiudono una così squisita geometria di proporzioni. Cavaliere e cavallo volgono sguardo e corpo verso ovest, diametralmente opposti quindi alle proppaggini dell'anfiteatro morenico del Garda dove sorge Custoza, luogo simbolo del declino storico e umano del Generale La Marmora. Casualità del destino, coincidenze ma all'osservatore attento non può sfuggire un chè di stanco ed incerto nella posa dell'uomo di stato e del militare che ha assistito a infinite morti in battaglia, nonchè a quella dell'unico figlio neonato e  da ultimo della moglie Giovanna.In un trafiletto del 7 gennaio 1878 su La Stampa sono descritte le esequie del generale a Firenze: il suo cavallo, velato a bruno, si legge, seguì il feretro....... Lasciando la piazza vien da ultimo da chiedersi se mai alcuno dei giovani bevitori di birra che nelle notti torinesi bighellonano ai piedi dell'Alfonso, si sia mai chiesto chi fosse costui e se davvero avesse sul groppone la responsabiltà dell'esito infelice della terza guerra di indipendenza.

.. o in un pomeriggio d'autunno...


E' raro ma succede che nevichi abbondantemente a Torino. E' questo allora uno dei momenti più adatti per capire la profonda bellezza del monumento di La Marmora. I dissuasori incappucciati del bianco manto diventano palle di cannone disseminate ai piedi del grande condottiero, le orme dei passanti quelle degli scarponi di ignoti soldati che non furono così fortunati come l'Alfonso a venir celebrati per l'eternità. E con la neve, come sempre, la piazza diventa silenziosa, di quel silenzio che ricorda il trascorrere dei decenni, la morte e la spaventosa inutilità di ogni guerra. Il La Marmora fu per molti versi una natura schiva: si narra (G.S. Marchese, 1861, pag.103) che al ritorno dalla Crimea il popolo torinese ebbe ad acclamare i soldati vittoriosi ma ancor di più chi li aveva capitanati... Ma il generale evitò la folla plaudente "rifggendosi in una modesta casa"....



E ora qualche nota urbanistica sulla nascita della statua......

La collocazione della erigenda statua ad Alfonso la Marmora  dopo l’iniziale proposta di piazza Maria Teresa scartata per via della scarsa visibilità causata dalle fronde degli alberi ivi presenti viene stabilita in piazza Bodoni Al centro della piazza per un certo numero di anni uno steccato provvisorio cela la vista del basamento in granito di Baveno su cui poggerà la statua equestre. Raccolti i fondi della sottoscrizione popolare, avuto il sostanzioso contributo del nipote  Tommaso il monumento ad Alfonso La Marmora è inaugurato il 25 ottobre 1891 alla presenza del Re d’Italia.   

Il monumento al Generale Alfonso la Marmora. 
II sindaco riferiva in una delle passate sedute alla Giunta municipale che, con deliberazione 30 novembre 1881, il Consiglio comunale accettava con plauso l'offerta del signor marchese Tommaso La Marmora di assumere a proprio carico l'esecuzione del monumento decretato al generale Alfonso La Marmora, mediante cessione del fondo ricavato dalla pubblica sottoscrizione a tale uopo instituitasi da eseguirsi il monumento in bronzo, con proporzionato piedestallo, secondo il bozzetto studiato dal prof. conte Stanislao Grimaldi e da collocarsi sulla piazza Maria Teresa, in luogo dell'aiuola centrale. Con lettera 20 ottobre corrente, il marchese La Marmora, in seguito all'avviso del conte Grimaldi, autore della statua equestre, e sul riflesso che nella piazza Maria Teresa gli alberi circostanti impedirebbero la vista del monumento, propone che ne sia mutata l'ubicazione, destinandovi la piazza Bodoni. La Giunta, ritenuto che la principale considerazione che indusse a scegliere la piazza Maria Teresa fu l'avere il generale Alfonso La Marmora abitato parecchio tempo in una bella casa fronteggiante la piazza medesima; che però anche in piazza Bodoni l'illustre personaggio ebbe pur dimora, approvò, secondo l'avviso della Commissione d'ornato, il proposto cambio d'ubicazione, salva la sanzione del Consiglio comunale, a cui la proposta verrà sottoposta in una dello prossimo sue sedute. 
La Stampa (4.11.1886) numero 305 pagina 3

Oltre vittoriose battaglie...


 

Buffalo e Alfonso: paragoni


In margine a tutto quanto finora detto c'è da rilevare come la collocazione della statua ebbe un travagliato iter con numerose ed accese sedute in consiglio comunale. L'Autore del monumento sostenne a lungo, dal 1873, che la statua doveva essere collocata o in piazza Castello o nei giardini di Piazza Carlo Felice e a sostegno di questo proposito ebbe a citare l'approvazione di Re Vittorio Emanuele II che, cosa non da poco, contibuiva per due terzi al finanziamento dell'opera....  Ma il progetto di porre Alfonso davanti a Porta Nuova ebbe fiere resistenze in Comune.... Di ordine architettonico: come poteva una statua armonizzarsi con il cosiddetto giardino all'inglese qual'era quello della piazza Carlo Felice? Di ordine logistico: porre Alfonso che guarda il centro cittadino o che, più prosaicamente, osserva la imponente facciata della stazione, col rischio di venirne schiacciato nel senso delle proporzioni naturalmente.....? E poi, osserva un arguto consigliere, cosa ci sta a fare vicino alla statua lo zampillo della fontana? Poco maestoso di certo, anzi irrispettoso. Come sappiamo, dopo molti anni di discusssioni il cavaliere eil fedele cavallo ebbero la loro collocazione più indovinata, senza zampilli, aiuole o imponenti ed imbarazzanti facciate di edificio.

sabato 5 marzo 2016

Torino 1859-1862. La Società del Whist, i balli e altro nella Torino dell' Unità

Come ai tempi in cui Jean Jaques Rousseau si aggirava per le strade solitarie della Torino del settecento, poco o nulla è cambiato nella fisionomia urbanistica tormentata della città. Anch'io girovagando per le stradine attorno alla via Doragrossa, ho potuto scorgere ad una finestra la figura rispettabile di una anziana vedova dei tempi di Carlo Felice che di sicuro aveva danzato nei palazzi divenuti poi sede di un prefetto di Napoleone..... Ho per Torino una tenerezza particolare. I miei più cari ricordi datano del tempo in cui abitai in questa città. Là, nella calma dello spirito, passarono stagioni felici, anche se quegli anni dal 1859 al 1862 furono anni assai turbolenti per la città in quanto tutti gli esiliati del paese compresi i rifugiati da Napoli, si stabilirono qui. Lungo i portici di via Po, al caffè Florio e nel gabinetto di Cavour si posero le basi dell'unità d'Italia. La guerra del '59 affrettò senz'altro questo processo. Ma finchè la capitale del nuovo regno fu a Torino, la fisionomia della vecchia città non mutò di molto. La bonomia, la semplicità e la rudezza dei piemontesi resistettero all'invasione di spiriti nuovi. E la sera i ministri del Regno, persone accessibili al primo venuto, passeggiavano lungo le arcate della via che conduce al Po, fumando i sigari sotto cappelli di feltro o di paglia. Poi la sera ognuno riguadagnava la strada di casa, palazzo o modesta abitazione che fosse. Nessun ministro era a spese dello stato per il suo alloggiamento, lo stesso Cavour pagava di tasca propria le cene ufficiali. Il parlamento era il centro della vita politica e li si dibattevano le questioni che avrebbero cambiato la vita del paese. Il corpo diplomatico seguiva queste vicende e fu li che iniziai a studiare i personaggi politici del tempo. Quando giunsi a Torino la Camera era composta per intero da piemontesi e savoiardi. Poi a poco a poco vi affluirono, lombardi, fiorentini, romagnoli e napoletani che con il loro idioma e la loro vivacità resero l'atmosfera molto più interessante. A fine seduta gli elemnti più radicali andavano cordialmente a cena con i loro avversari politici nel ristorante Carignano, di fronte al Parlamento. Ogni asperità veniva dimenticata di fronte ad una bottiglia di Barolo e questo era uno dei caratteri più singolari della mentalità dell'italiano.
La Società del Whist o Club dei Nobili era uno dei circoli torinesi più organizzati. Composta da membri della vecchia aristocrazia piemontese ammetteva raramente nuovi soci. Il corpo diplomatico vi aveva libero accesso. Il palazzo, situato nel centro della città, si trovava in faccia agli splendidi giardini del palazzo del Principe di Cisterna. Un salone di lettura, una ottima tavola e degli amabili ospiti facevano del circolo un punto obbligato di incontro della diplomazia che arrivava a Torino. I deputati delle nuove province ed  i generali erano accolti a titolo provvisorio, mentre i membri delle antiche famiglie piemontesi, che in passato avevano militato nell'esercito sardo, erano considerati a pieno diritto soci fondatori. Gli stranieri erano trattati con cortesia e riguardo. I Francesi poi erano considerati dei veri e propri compatrioti. La compagnia Meynadier dava rappresentazioni in città nella stagione invernale e al teatro Scribe a Torino si mettevano in scena delle novità teatrali appena uscite a Parigi. Il Teatro Regio è vicino al palazzo reale, ha una sala grande, molto bella decorata però in uno stile Impero molto rigido. Ho sentito dire ad un vecchio piemontese che prima del resaturo la sala era un vero modello di decorazione settecentesca: ogni loggia era inquadrata da legno dorato di piacevole effetto, le gallerie tagliate a giorno, richiamanti il Luigi XV più puro. Il teatro Regio era un tempo proprietà del Re che lo lasciava al pubblico riservandosi le logge del primo rango (il Palco nobile) aperte anche ai dignitari di corte e ai ministri stranieri. In seguito i palchi divennero proprietà delle famiglie dell'aristocrazia a Torino come in molte altre città. Nelle rappresentazioni di gala il teatro è illuminato a giorno e tra ogni loggia prende posto un lampadario con 8/10 candele. Il sovrano assiste allo spettacolo dal palco centrale mentre i diplomatici e i ministri da quelli laterali. L'illuminazione intensa esalta gli abbigliamenti e le pettinature delle dame. Alla fine del primo atto si aprono le porte dei palchi e dei domestici in livrea offrono rinfreschi e dolci. Anche se inferiore a quella di Milano la Compagnia dell'opera e di ballo di Torino, è pur sempre una delle migliori del paese. Il Carignano, ugualmente teatro reale, inizia la sua programmazione alla fine di quella del Regio. Nessuna città ha così tanti teatri come Torino: se ne contano più di 12 e vi si rappresenta il balletto, l'opera, il vaudeville, la pantomima la commedia indistintamente. Il teatro Gerbino è dedicato alle rappresentazioni in piemontese. Ogni sera il pubblico affolla le sale, dato che i prezzi sono alla portata di tutti. La vecchia nobiltà pur nell'animazione culturale della città resta ancorata alle vecchie abitudini. Fino al matrimonio le giovani fanciulle non varcano le soglie dei saloni: la loro educazione è severa e risente molto della cultura sabauda. A fine anno è consuetudine però dare un gran ballo per alleggerire questa "reclusione". Il ballo delle "tote" è una riunione esclusivamente di giovani donne. Gli inviti sono molto ristretti e molto ricercati. Una sottoscizione fatta tra le grandi famiglie permette l'organizzazione del ballo che si svolge in uno dei più begli appartamenti della città. Inizia alle otto di sera e termina alle 8 del mattino successivo. Solo le madri possono accedere al ballo, per sorvegliare le loro pupille. L'atmosfera, come ho potuto verificare, è molto franca e gioiosa. Un'eccellente cena, in cui lo champagne fa la sua discreta comparsa, interrompe il ballo a notte fonda. Il ballo può quindi riprendere mentre le madri spesso sonnecchiano.  Alla fine delle 12 ore ci si lascia con strette di mano, con qualche rimpianto, dandosi appuntamento per l'anno successivo, a meno che durante la festa non si sia intrecciato qualche fidanzamento preludio al matrimonio . 

(traduzione libera dal Diario diplomatico di Henry d'Ideville, 1875)


Fils de François Le Lorgne d'Ideville, après des études de droit à Paris, il devient secrétaire d'ambassade à Turin (1859), Rome (1862-1867) puis Dresde et Athènes. Proche ami d' Alexandre Dumas, on lui doit un des tout premiers livres sur Gustave Courbet (1878). Il a été préfet d' Alger de 1871 à 1873. Il repose dans la sépulture familiale au cimetière de Loddes (Allier).
(Fonte Wikipedia)

domenica 28 dicembre 2014

Carlo Giacomini, anatomista in Torino

LA STAMPA - GAZZETTA PIEMONTESE,  5.7.1898

La morte del prof. Giacomini. Una dolorosissima notizia. Questa mattina alle ore otto è morto il professore Carlo Giacomini, l'illustre anatomico della nostra Università. Il prof. Giacomini è morto si può dire sulla breccia, perché sino all'ultimo momento, benché sofferente da circa un anno, attese indefessamente ai suoi studi prediletti di embriologia ed alle incombenze del laboratorio. Dire dell'opera scientifica del prof. Giacomini in questo momento è fuori di luogo: effettivamente l'Italia perde ora uno dei più grandi anatomici, degno successore del Rolando nella cattedra subalpina. Rimarranno classici i lavori sulle circonvoluzioni cerebrali e sulle varietà delle stesse, quello sui cervelli dei microcefali, che valse all'autore un importantissimo premio dell'Istituto Veneto di Scienze: numerosi lavori di tecnica per la conservazione dei cadaveri, per lo sezioni microscopiche del cervello. Sono ugualmente da ricordarsi gli studi brillanti sull'anatomia del negro, che condussero a risultati veramente interessanti e notevoli per quanto riguarda l'evoluzione di taluni organi negli antropoidi, nelle razze di colore e nella razza bianca. Finalmente si era fatta il prof Giacomini una vera specialità nello studio delle anomalie dello sviluppo dell’embrione umano riuscendo con l’interpretazione e coll’esame dei prodotti abortivi molto giovani a dilucidare grandemente alcune delle più vitali questioni dell'embriologia moderna. Le raccolte coordinate con tanta fatica dal nostro povero morto giacciono ora ai nuovi Istituti al cui arredamento stava attendendo alacremente. Il prof. Giacomini era nato il 25 novembre 1840 a Sale, presso Tortona: si laureò in Torino, fece alcun po' il medico condotto; fece in seguito la campagna del 1866 in Lombardia, quella del 1870 in Francia come medico volontario; d'allora in poi si era dedicato esclusivamente ai suoi studi prediletti. Lo scrivente, che ricorda con commozione profonda lo scrosciante, interminabile applauso col quale la studentesca torinese ed un grande stuolo di medici salutava il prof. Giacomini inaugurante colla sua ultima lezione il nuovo antisettico anatomico, manda al prof. Giacomini il saluto riverente e commosso di tanti suoi allievi, che perdono in esso uno dei più infaticabili ed indefessi lavoratori.


La STAMPA - GAZZETTA PIEMONTESE 8 luglio 1898
 I funerali del prof. Carlo Giacomini. In forma civile, in obbedienza alla volontà del defunto, ebbe luogo ieri il trasporto funebre del compianto prof. Carlo Giacomini. Alla salma del chiarissimo uomo resero gli estremi tributi d'affetto, di stima, di venerazione una vera folla di professori, di amici, di conterrazzani appositamente giunti da Salo e in grandissimo numero, di discepoli antichi e giovani. Con pensiero affettuosamente gentile un nucleo di questi ultimi, vollero trasportare la salma stessa sullo spalle, dalla casa N. 18 del corso Vittorio Emanuele, alla sala dell'Istituto anatomico in via Cavour. Seguiva il feretro la vecchia bandiera degli studenti, i vessilli delle Società di mutuo soccorso di Sale, paese nativo del defunto, quello dell'Associazione fra gli impiegati degli Istituti superiori, scortata da alcuni uscieri in divisa. Seguiva un gran carro coperto di grandi corone di fiori, fra le quali abbiamo notate quello dei collegi della Facoltà medica, dell'Istituto anatomico, dell'Accademia medica, del Comune di Sale, dell'Associazione medica di Alba. Una grande corona degli studenti della Facoltà medica era portata a braccia da alcuni studenti stessi. Deposto il feretro nella sala anatomica, il rettore dell'Università prof. Tibono, anche quale rappresentante del ministro della pubblica istruzione, rivolse alla salma un commovente saluto, ricordando di lui e la profondità della dottrina e le squisita bontà dell'animo. Altri non meno commoventi elogi funebri pronunziarono in seguito il comm. prof. Pagliani, quale rappresentante della Facoltà medica di Siena e di altre Università, il prof. Romiti quale rappresentante dell'Università di Pisa e quale amico intimo del defunto, il prof. Certosio in  memoria degli antichi allievi ed il prof. Carle per l'Accademia delle Scienze di Torino  quale rappresentante anziano dell'Accademia Medico-Fisica di Firenze per incarico telegrafico avuto dal presidente Pelizzari. Verso le 18,30 la mesta cerimonia era finita e la salma, cosparsa di fiori, veniva lasciata nella stessa sala, a disposizione dell'Istituto Anatomico, al quale il defunto lasciò il proprio scheletro. 




sabato 12 luglio 2014

Cascina La Grangia Torino: storie cittadine

Come è possibile leggere sul sito di MuseoTorino  le origini di questa cascina risalgono al '400/500 quando la sua struttura  era ancora costituita da "un corpo unico di fabbrica suddiviso su due livelli fuori terra, con abitazione e stalla al primo piano e camera e fienile al secondo". La planimetria a "corte chiusa" si sviluppa solo nel corso dei  secoli. Nell'assedio del 1706 la cascina fu utilizzata come fureria e come caposaldo della difesa della zona. Sessant'anni dopo viene descritta come un corpo chiuso circondata da campi, orti e giardini.

Cascina La Grangia, Grange. Carta Topografica della Caccia, 1760-1766

Nel 1978 era ancora possibile leggere sul giornale cittadino la notizia che in via Gradisca, alla cascina La Grangia, le mucche erano di casa assieme a polli e galline. Muche che all'uscita mattutina dalla cascina, nel tragitto fino ad un prato vicino, creavano un certo scompglio tra gli automobilisti.

Nel 1981 il coordinatore della commissione urbanistica, Eros Ricotti  dichiarava che si stava valutando "la possibilità di fare di questa cascina, un centro comunitario dove collocare attività per handicappati ultraquattordicenni, laboratori artigianali, sale per riunioni e centri d'incontro per giovani e anziani e sarebbe nostra intenzione anche dar vita a un museo agricolo viste le caratteristiche della sede, che possiede un valore storico-artistico"

Paole cadute nel vuoto, tant'è che nel 2001 la cascina la Grangia viene demolita. Nel settembre dell'83 già si era avviata la lenta agonia. E' di quel mese un articolo, sempre su La Stampa, che recita: 

Condanna a morte per la cascina Un sopralluogo dei vigili del fuoco ha stabilito che è pericolosa. I prati e campi che la circondavano ora sono coperti da case - Vi sta sorgendo l'Istituto Alberghiero - 
Condanna a morte, per fatiscenza. per l'ultima cascina Urbana di Torino, un grosso edificio più che cadente che fiancheggia via Ricaldone, tra via Caprera e via Oraglia, appena a ridosso del centro della città, a meno di 500 metri dalla chiesa di Santa Rita. I vigili del fuoco, dopo un sopralluogo richiesto dalle famiglie delle case circostanti, preoccupate dalle continue cadute di tegole e calcinacci sulla strada, l'hanno giudicata inagtblle.  Ma questa volta, il problema non è soltanto di trovare un tetto alle due sorelle che vi abitano, Gina e Antonietta Cornelio, ma di reperire in poco tempo una stalla per le loro 32 mucche, unica fonte di guadagno e ragione di vita. Se un posto per gli sfrattati si trova con una certa facilità (ci sono gli alberghi, gli alloggi-parcheggi), una sistemazione per vitelli e mucche da latte, in città è molto più ardua. Ci hanno provato leri i vigili urbani del quartiere, più propensi ad usare umanità e buon senso che ad applicare alla lettera la legge. Sembrava si potessero parcheggiare temporaneamente al mattatolo civico, ma motivi sanitari hanno consigliato, di soprassedere. La cascina «La Grangia., che una volta aveva di fronte 5O giornate di terreno oggi diventato città, è di proprietà degli eredi dell'industriale farmaceutico Marco Antonetto, quello dei celebre digestivo. Sembra che in passalo una parte del terreni sia stata data al Comune a prezzi irrisori per costruire scuole e una chiesa in cambio della possibilità di edificare sull'area dell'attuale cascina. Ma evidentemente, qualcosa non è andato per il verso volulo dai proprietari e ora la zona è destinata sia ad edilizia economico popolare (legge 167) sia a sede di un centro civico voluto dal quartiere. Alle spalle si sta già realizzando il nuovo Istituto alberghiero. La cascina, quindi, deve andarsene. Ma chi ci abita e ci alleva 32 mucche non vuole sentire ragioni: -Macché crolli — diceva ieri mattina ai vigili del fuoco Gina Corneno. trattenendo le lacrime —, sono ventannl che stiamo qui dentro e non è mai caduto un mattone-. Un'affermazione, questa, che, a chi ha dato un'occhiata all'edificio, è apparsa per lo meno ottimistica: muri sbrecciati, tetti e pareti puntellati alla meglio, tegole sospese al cielo. E tanta sporcizia. • Come si fa a dirci di andare via da un giorno all'altro? E le bestie dove le mettiamo? Prima ci hanno cacciato dai prati per farci la scuola alberghiera, adesso vogliono cancellarci, si e ancora lamentata Gina Corneno con i vigili urbani. Intanto è venuto fuori che nel cortile della cascina ci sono una quarantina di baracche di lamiera, legno e cartone usate come box per le auto degli abitanti delle case vicine. 


domenica 20 aprile 2014

Il giardino zoologico di Torino al Parco Michelotti

La storia del giardino zoologico di Torino si dipana nell'arco di poco più di trenta'anni dal 1955 al 1987. La sua nascita avviene nel 1955 quando la Giunta comunale delibera di concedere  la zona del Parco Michelotti, per trent’anni, alla Società Molinar. La scelta del luogo viene fatta dopo aver preso in considerazione altre aree scartate, come nel caso del Giardino Ginzburg, per non oscurare la prospettiva del Monte dei Cappuccini.  Per chi desiderasse approfondire il tema suggerisco il  seguente link 
http://enzocontini.wordpress.com/2013/01/17/lo-zoo-di-torino-nel-parco-michelotti-dal-20101955-al-3131987/ 

Di seguito le vicende del giardino zoologico desunte dagli articoli de La Stampa dalla sua nascita nel 1955 alla chiusura nel 1987

15 Gennaio 1955

Dopo la decisione presa dal Comune. Si cerca un giardino per la sede dello Zoo.
Il parere del soprintendente ai Monumenti e alle Belle Arti: non guastare il panorama caratteristico, il Monte dei Cappuccini.  Non v’è dubbio che una delle decisioni più simpatiche e popolari prese di recente dall'amministrazione civica sia stata quella di dotare Torino d'un giardino zoologico, accettando una nota proposta privata. Cosi poco pittoresca è la vita contemporanea in una grande città, così tediose e monotone sono le giornate malgrado il tumulto delle cose e dei casi straordinari — anzi, proprio per questo, perché nulla v'è di più malinconico del non potersi più stupire, nel male e nel bene —, che l'idea degli elefanti e delle tigri, degli orsi e dei pitoni, delle scimmie e dei marabù sulle rive del Po, ridestò in tutti, grandi e piccini, fantasie liete, colorite di esotismo. Benvenute dunque le belve, quando giungeranno in questa nordica e nebbiosa Torino. Dove ospitarle,  dove crear loro, così la dimora, l'illusione della selva, del deserto, del fiume questa  scelta, il Municipio l'ha fatta. Tra i vari luoghi che la città offre, sulla sponda del Po, a ponente di corso Moncalieri e a breve distanza dalla Gran Madre di Dio, fra la villetta della Società canottieri «Esperia» ed il grande edificio del Centro ricreativo Fiat, si stende un terreno lievemente ondulato di forse trecento metri per ottanta, con qualche albero annoso, sistemato con decoro a zone erbose, vialetti, giovani alberelli, con al centro un piazzale per giochi sportivi. E' il Giardino Leone Ginzburg, nome caro alla memoria di tutti gli spiriti liberi e colti. I nostri padri coscritti hanno detto: Ecco il luogo ideale; il puma riudirà il mormorio delle correnti amazzonie, il giaguaro risognerà l'agguato dell’alligatore.  Hanno dimenticato un particolare: che proprio sopra il Giardino Ginzburg, al di là del Corso Moncalieri. s'alza boscosa — precisiamo, in via di rimboschimento — la costa del Monte dei Cappuccini; e che questa deliziosa, impareggiabile, e tanto caratteristica architettura torinese, per metà naturale e per metà creazione dell'uomo, offre la sua visuale più bella e completa, serena, armoniosa, col nitido poliedro della chiesa del Vittozzi e il lungo fianco del convento, dal nobile ingresso  di corso Cairoli, sull’opposta riva del nostro caro fiume. A questa incantevole e stampa antica bavarese serve di ben composta base, raccolta e amena, appunto il Giardino Ginzburg, ultimo lembo di terra, su codesta sponda, libero ancora d'intruse presenze di fabbricati. Perchè di fabbricati, quantunque di ridotte dimensioni, necessiterà pure il nuovo giardino zoologico; gli elefanti, ad esempio, vogliono una loro casa, esigono <casette> le più freddolose fiere; poi ci saranno rocce artificiali, gabbie, steccati, reti, pali e piloni. Sappiamo che l'architetto Manfredi, incaricato di studiare la sistemazione, ha fatto miracoli, da quell'intelligente progettista che è; ma sappiamo anche che non si tengono leoni e tigri come conigli; e allora addio al fianco aprico del nostro bel Monte, già guastato da quello stupido piazzaletto-fontana. Proprio è obbligatorio, a Torino, alterare i più tipici aspetti locali? Si effettuerà la minaccia all'antica Bastita, il famoso <castelletto del Po>, cui il giovane duca Carlo Emanuele, dopo averlo comprato dai conti Scaravelli, ascendeva nel 1583 — con il corteo recante la gran croce di legno — per donarlo ai Padri Cappuccini? Di questo proposito è impensierito il soprintendente ai monumenti prof. Chierici, cui spetta anche la tutela del paesaggio torinese. Come non esserlo? Basta immaginarne le conseguenze; e con lui è d'accordo il prof. Giorgio Rosi, ispettore centrale della Direzione Antichità e Belle Arti. Si dirà: i soliti guastafeste, coi loro bastoni da gettar nelle ruote d'ogni idea accolta con favore. Nessuna festa da guastare: basta non guastare, invece, e irrimediabilmente, uno dei pochi panorami caratteristici che restano a Torino. Chi penserebbe, a Parigi, di toccare i dintorni del Pont Neuf, di disturbare la quiete della Pointe du Vert-Galant? La vera civiltà, che è sempre gusto e cultura, è fatta anche di queste minuzie. Allora, niente giardino zoologico? Manco per sogno. Ci sono altri luoghi: il Parco Michelotti, ad esempio, nei pressi del ponte Regina Margherita. Nessuno più di noi strenuo difensore del Valentino; ma, scelto bene il punto, le belve ci potrebbero stare. Poi c'è la zona, che sarà tutta giardinata, di corso Polonia. Lontana? L'elefante  Annone di papa Leone X era la mascotte del popolo romano. Il popolo torinese non farà una passeggiata per vedere il suo elefante?  

2 marzo 1955
Le partenze di Arduino e Sandro Terni per una spedizione nelle foreste Caccia per lo «Zoo». Il serraglio di Torino sarà il più moderno d'Europa
Per la costruzione del giardino zoologico, pronto secondo le previsioni entro luglio di quest'anno, i tecnici devono risolvere sempre nuovi problemi. Approvato il progetto che l'8 marzo sarà presentato al Consiglio Comunale, discussa la sistemazione, iniziate le prime delimitazioni sul terreno del parco Michelotti, si comincia orai a parlare degli animali. Una popolazione di 2000 unità non è facile da riunire tenendo conto delle migliaia di chilometri che separano il luogo di nascita di leoni e leopardi da quello dei pinguini o degli orsi polari. Ma gli organizzatori non si spaventano delle distanze, nè delle difficoltà. Fra meno di un mese cacciatori ed esperti partiranno da Torino per i quattro angoli del mondo. Primo fra tutti, come è naturale, sarà Arduino Terni, l'uomo che da parecchi lustri vive cercando e allevando, con l'amore del collezionista, animali di ogni latitudine ed è stato uno dei migliori collaboratori dei fratelli Molinar nel nome da quali continua a lavorare. <Non posso dirvi nulla per ora dello Zoo di Torino — ci ha detto stamane nel suo ufficio di via Goldoni — una cosa è certa: sarà fra i più belli e quasi certamente uno dei più moderni d'Europa. Poche gabbie, molta libertà per gli animali: questo è il nostro motto. Terni sta preparando qualche grossa sorpresa per lo zoo di Torino. Fra pochissimo tempo andrà in Birmania a raggiungere il figlio Sandro diciottenne, partito anch'egli alla caccia di elefanti.  Oltre ai grossi pachidermi arriveranno sulle rive dei Po dall'Oriente tigri malesiane, orsi, serpenti dalle lunghe schiene striate. E, forse, il rinoceronte indiano. Sono animali ormai rarissimi, quasi introvabili — racconta Terni — un tempo gli indigeni li uccidevano senza pietà per prendere il loro unico corno da cui traevano una sottilissima polvere inebriante, Nel '52 ho partecipato ad una battuta di caccia contro questo strano rinoceronte. Un’avventura piena di emozioni. Abbiamo impiegato un mese e mezzo per portare l'enorme bestione pesante 22 quintali, in una fossa pantanosa di dove si poteva farlo entrare, senza ferirlo, in gabbia. Il nuovo giardino sarà ricco anche di belve feroci: un collaboratore di Arduino Terni sta girando, in questo momento, le foreste dell'Africa equatoriale per catturare leoni, tigri, pantere, puma, ippopotami. Fenicotteri palmipedi, rapaci, uccelli tropicali, serpenti saranno presenti, come in ogni zoo che sia degno dir questo nome, anche nel giardino di Torino. Poiché noi vogliamo accontentare i gusti del pubblico ci porteremo anche numerose scimmie, orsi e foche, gli animali più amati dai visitatori, i veri incontrastati divi degli zoo di tutto il mondo.

3 giugno 1955
Arrivano le belve. A Parco Michelotti si lavora alacremente per portare a termine la costruzione di gabbie, recinti, fontane. Gli animali saranno ospitati provvisoriamente allo zoo di Milano.

18 luglio 1955
Arrivano i primi ospiti. Leoncini e scimmie entrano nel giardino zoologico. Il Sindaco in visita al cantiere.

2 settembre 1955
La firma per lo Zoo. A mezzogiorno è stato firmato l'atto di nascita dello Zoo di Torino. Il signor Terni, amministratore della ditta Molinar, si e recato dal Sindaco e in sua presenza ha siglato la convenzione. Il giardino zoologico, uno dei più piccoli e più belli d'Europa, sarà aperto alla fine di settembre. Le scolaresche avranno ingresso libero, il prezzo del biglietti sarà di 100 lire per gli adulti e 5O per militari e ragazzi.

20 Ottobre 1955
 Sarà inaugurata nel pomeriggio dal Sindaco la città zoologica al parco Michelotti.  I vigili del fuoco alla caccia di un pellicano fuggito nella notte. Da oggi pomeriggio Torino avrà un suo zoo: un pizzico di jungla nel Parco Michelotti, una delle zone più suggestive del lungo Po. Sarà uno zoo modesto nelle proporzioni, ma il più moderno di tutta Europa. Stamane arriveranno gli ultimi ritardatari: un orso bruno, regalo dello zoo di Vienna, decine di uccelli esotici e numerose scimmie. Poi il Parco sarà al completo, pronto per la cerimonia inaugurale che si svolgerà alle ore 16 con la presenza del Sindaco avv. Peyron e di altre autorità. Lo zoo (il progetto è opera dell'ing. Gabriele Manfredi) si vale di una costruzione geniale che unisce alla razionalità degli impianti, una moderna eleganza di linee: le gabbie, le vasche, le abitazioni notturne, le isole degli anfibi hanno fisionomie del tutto diverse da quelle che hanno sempre caratterizzato tali impianti. Le recinzioni, nel limite del possibile, sono ridotte al minimo, grazie anche a particolari accorgimenti i quali, mentre non consentono alcuna possibilità di fuga agli animali, danno al pubblico la impressione di vederli nella loro vita di libertà. Il terreno è variamente movimentato e i sinuosi tracciati muovendosi anche in altezza offrono una prospettiva sempre varia. Le bestie che popolano questa minuscola loro città sono alcune centinaia. Le specie rappresentate sono numerosissime, ma mancano i rettili e i pachidermi che potranno essere ospitati dallo zoo quando le possibilità finanziarie (l'opera fino ad ora è costata 8O milioni) permetteranno di realizzare anche la seconda parte del progetto la quale comprende la casa per i pachidermi, la voliera magica per gli uccelli tropicali e il terrarium  per i rettili.  Fra gli animali ospiti dello zoo sono un bisonte europeo regalato al sindaco di Torino dal collega di Roma, tre orsi lavatori offerti dallo zoo di Monaco, tre cervi dello zoo di Basilea, un leopardo mandato in regalo dallo zoo di Colonia. L'elenco degli altri presenti sarebbe lunghissimo; ne citeremo alcuni a caso: cinque leoni, due puma, due leopardi, dieci canguri, due lama, due tigri, una pantera nera, due orsi polari, tre cervi, un elefante, quattro otarie, quattro pellicani, cinque zebre, cento palmipedi, dodici pinguini, quattro struzzi, centinaia di scimmie e centinaia di uccelli delle specie più rare e dai colori più sgargianti. Il giardino sarà diretto dal signor Arduino Terni, un veterano nel campo zoologico, che ha al suo attivo vent'anni di Asia dedicati alla cattura e alla raccolta degli animali esotici. Un altro personaggio importantissimo per la città zoologica è il veterinario, che terrà sotto controllo tutti gli animali. Già in questi giorni ne ha due in cura: un'otaria e un pellicano. I’otaria, che è della famiglia delle foche, ha sofferto durante il lungo viaggio di trasferimento dai mari del Nord a Torino: è rimasta circa 33 ore senza potersi tuffare nell'acqua e questa astinenza le ha procurato disturbi che si sono palesati al suo arrivo con inappetenza e con il desiderio di rimanere nella tana anziché godere della magnifica piscina azzurra a disposizione sua e delle compagne. Adesso ogni mattina il veterinario fa all'otaria ammalata una iniezione e imbottisce di pillole una delle tante sardine che le sono destinate per pasto. Il pellicano è malato per una brutta avventura che egli stesso ha voluto vivere. Appena giunto allo zoo, approfittando del fatto che il suo recinto non era ancora ultimato, riusciva a fuggire e si rifugiava nel Po, sotto il ponte Regina, dove rimaneva per tutta la notte. L'indomani mattina, quando i pompieri, in barca, cercavano di awicinarglisi, riusciva ad allontanarsi nuovamente. Più tardi veniva raggiunto e catturato; ma aveva un'ala colpita da una scarica di pallini tiratagli evidentemente da un cacciatore poco scrupoloso. Nel giardino zoologico un ampio settore è dedicato alle scimmie. Nelle giornate estive o comunque non fredde le scimmie potranno stare all'aperto in un'ampia isola al centro di un pozzo di cemento di una ventina di metri di diametro e profondo circa tre. Ai visitatori, che seguendo un percorso in salita si affacceranno alla sommità del pozzo, gli agili animali daranno lo spettacolo dei loro giochi: l'isola è infatti una specie di luna park, con ruota della fortuna, giostra, sbarra e altalena. Un'altra originale costruzione all'interno dello zoo è quella della « casa dei leoni e delle tigri, la quale fa spicco per i quattro alti coni di cemento e vetro che sovrastano le gabbie e alla cui sommità sono installati gli aeratori, I coni di vetro daranno luce di giorno nelle gabbie e di notte, illuminati, saranno visibili dall'altre Po. Il quadro scenografico del giardino è completato, oltreché dalle rocce che delimitano i settori degli orsi e delle otarie, dalle piantagioni che, quando raggiungeranno il loro pieno vigore, daranno un aspetto di vera jungla all'insieme dello zoo. Ai fanciulli che con impazienza aspettano l’apertura del giardino sarà riservata una sorpresa: essi dovranno rispondere a un referendum per dare il nome all'unico elefante dello zoo che é arrivato al Michelotti nella mattinata di ieri dalla Birmania.

7 agosto 1956



6 marzo 1957
Addentato da un orso un guardiano dello zoo. Guaribile in 12 giorni.

17 agosto 1958
Cinque scimmie fuggono dallo zoo e dagli alberi bombardano i passanti

28 febbraio 1962
Bloccano il traffico in Borgo Po 23 scimmie evase dallo Zoo.

29 gennaio 1971
I leoni dello zoo se ne vanno.  Previsto il trasferimento di una parte del giardino zoologico a Stupinigi
Lo zoo del Parco Michelotti ospita attualmente 117 mammiferi, 739 uccelli, 114 rettili e 1353 pesci su una superficie quadrata di 50.000 metri. Uno zoo medio ormai insufficiente per una metropoli quale vuole essere Torino. Per questo il sindaco si è preoccupato di trovare una nuova sistemazione nel parco di Stupinigi. Qui sarà possibile aumentare il numero degli animali con nuove specie e creare un moderno parco zoologico in cui siano abolite le sbarre e gli animali possano vivere in un ambiente naturale e non più completamente ricostruito. E' un nuovo orientamento già adottato in alcune capitali europee, più piacevole per i visitatori che possono unire alla visita l'occasione per una scampagnata. Ci sarà anche, sia pure in miniatura, la possibilità di un safari fotografico. Un progetto in questo senso è già stato preparato e verrà consegnato nei prossimi giorni ai competenti uffici comunali. Nel Parco Michelotti resteranno soltanto gli impianti fissi con l'acquario, che è ancora considerato fra i più moderni e completi d'Europa, una parte degli uccelli e degli animali più domestici. Verrebbe cosi ridotto lo zoo del Parco Michelotti e l'area lasciata libera diventerebbe verde pubblico con la costruzione di aiuole e fontane per il gioco dei bambini. Questa soluzione accontenterebbe tutti: chi asserisce che lo zoo del Parco Michelotti rappresenta un'attrattiva nel centro della città e coloro (sono la maggioranza) che sostengono la necessità di dare alla città un grande giardino zoologico capace di aumentare ancora il richiamo che gli animali esercitano sulla popolazione e sul turismo. Quando sarà realizzato il progetto? Impossibile dirlo. I problemi sono molti. Oltre al reperimento dell'area dietro il castello di Stupinigi sulla strada per Piossasco, è necessario creare tutti i servizi primari (acqua, luce, telefono), costruire gli edifici per il ricovero degli animali, le abitazioni dei guardiani, i recinti e creare l'habitat per le singole specie della fauna da ospitare. Il piano di massima è già pronto e, se approvato, potrà dare l'avvio al progetto esecutivo. Un'iniziativa che può contare a Torino su tecnici preparatissimi come Terni e Molinari.

Tratto da: https://www.facebook.com/media/set/?set=a.612946318717365.1073741827.457641684247830&type=3

30 agosto 1972
L’ippopotamo dello zoo ucciso da una bambola. E’ un esemplare femmina di 17 anni proveniente dalla Somalia. Da qualche giorno non mangiava più e deperiva. All’autopsia trovata una testa di bambola (probabilmente lanciata da una bambina) che aveva bloccato lo stomaco.

18 Febbraio 1978
 I molti problemi e i moltissimi progetti del Parco Michelotti
Lo zoo (in letargo) aspetta finanziamenti LUISELLA RE Al parco Michelotti; il giardino zoologico si prepara ad uscire dal letargo invernale. Proprio in questi giorni il cigno nero, «fingendo» di essere ancora in Australia, cova le sue uova tra la neve invece che in mezzo alla sabbia rovente. Intanto, mentre i procioni — ultimi arrivati — sono praticamente ambientati, si finisce di preparare la gabbia destinata ai nuovi caprioli. «Ma le novità più importanti sono altre, e riguarderanno pesci e rettili — anticipa il vicedirettore Giusto Benedetti —. Uno zoo moderno ha scopi di divulgazione naturalistica, ricerca scientifica, conservazione di specie rare, didattica. Siamo piccoli, abbiamo pensato fosse meglio restringere gli obiettivi a quest'ultimo settore, visto anche che qui arrivano più di 150 mila scolari ogni anno. Da tutto ciò, le attuali ristrutturazioni». Da maggio, la piccola sala superiore fino a ieri destinata ad una serie di acquari apparirà completamente diversa. «Tre vasche mediterranee illustreranno la vita che si svolge ai diversi livelli di profondità. In più, accanto ad alcuni esempi di acquari "giusti" e di acquari "sbagliati", verranno esposti modelli illustrativi delle varie fasi della riproduzione, delle leggi genetiche e di un ecosistema: dei rapporti e degli equilibri, cioè, che caratterizzano un determinato ambiente». Al piano sottostante, invece, due esperimenti portati avanti con il gruppo biomarino Fias (Federazione attività subacquee) di Torino, in primo, già in allestimento e che verrà probabilmente completato entro la tarda primavera, consiste (ed è il primo tentativo del genere realizzato in Italia), nella riproduzione artificiale di una biocenosi mediterranea. «In parole povere, si tratta di mettere insieme tutti gli organismi che vivono in natura in un certo habitat (nel caso specifico, nelle acque costiere della Liguria), e di portarli ad un equilibrio di completa autosufficienza: con il pesce grande che mangia il pesce piccolo; con il pesce piccolo che si garantisce la sopravvivenza aumentando le sue capacità riproduttive, e così via. Si tratta, ovviamente, di un'esperienza che esige un lungo rodaggio». A farne le spese, per ora, sono stati soprattutto i paguri, decimati senza pietà. Già a maggio, però, si spera che anemoni e cefaletti, oloturie e stelle marine, pesci-ago, «gallinelle» e spirografi avranno raggiunto un ragionevole patto di coabitazione. Secondo esperimento (questa volta a tempi necessariamente più lunghi) quello relativo ad un nuovo, grande «paludario». Ospiterà libellule e rane, bisce e ramarri, piante palustri e uccelli acquataci. Per completarlo, bisognerà Lezione col leopardo aspettare circa un anno. «Nel frattempo — sottolinea il direttore Terni — ci auguriamo di poter proseguire su questa strada grazie anche ad appoggi esterni di cui fino ad ora siamo sempre stati costretti a fare a meno. Questo zoo, com'è noto, dipende da una società privata che in passato poteva contare su introiti legati all'importazione ed al commercio di animali selvatici Ora però il vento è cambiato: i paesi importatori hanno chiuso le frontiere, non possiamo più sostenere da soli un onere finanziario tanto grande. Dì conseguenza speriamo che il Comune, il quale da tempo dimostra di aver capito che uno zoo non è un baraccone da fiera ma può diventare un istituto culturale con tutte le carte in regola, ci offra in futuro qualcosa in più della sua amicizia». Un omaggio, a dire il vero, è già stato offerto parecchi anni fa. Fu l'arrivo del professore di scienze Ernesto Sbarsi, dislocato qui appunto dal Comune come «guida» per le scolaresche e come responsabile delle attività culturali abbinate al settore della didattica. Tocca a questo insegnante spiegare a decine di migliaia di ragazzi i segreti dello zoo: il buon carattere della iena, i getti di sabbia con cui si difende la lince, l'indole da «maschio latino» del ghepardo il quale, quasi per far loro rabbia, si accoppia solo se in presenza di altri maschi. E tocca ancora a lui, furibondo con le enciclopedie naturalistiche italiane («Testi orribili, pieni di foto ma anche di errori mostruosi»), respingere per carenza di tempo e di personale, almeno un trentesimo delle visite di scolaresche, almeno il 90 per cento delle insegnanti alla ricerca di una consulenza «che è ovviamente gratuita, come l'ingresso offerto a tutte le scuole della città. Appunto a Torino, patrocinato dall'istituto di antropologia, si terrà a maggio il secondo congresso nazionale dei musei scientìfici naturalistici. Intanto (mentre nei giorni scorsi i giornali di mezzo mondo hanno annunciato la «clamorosa scoperta», in Nuova Zelanda, di alcuni gabbiani «Magenta Petrel» che si ritenevano scomparsi da secoli e di cui l'unico esemplare (imbalsamato) che si conosca, è ospitato nel museo zoologico torinese) si fanno sempre più concrete le voci che anticipano un grande, completo Museo delle Scienze in programma su iniziativa della Regione. Dice il prof. Sbarsi: «I ragazzi ai quali "spiego lo zoo" non sono certo quelli che hanno buttato 33 chili di pietre nella vasca delle otarie o che cercano di accecare gli animali in gabbia, sono convinto che la strada per quella coscienza naturalistica e quel rispetto verso l'ambiente che in Italia ci sono sempre mancati passi anche di qui.

Ipotesi di chiusura. I tempi sono mutati. L'importazione di animali esotici ha subito severe restrizioni, segnando la fine di un businnes lucroso, la sensibilità ecologica verso il mondo animale si è affinata e l'animale dietro le sbarre non suscita più curiosità ma pena. Il giardino zoologico cittadino è economicamente in grave perdita e allo scadere della convenzione con la Ditta Molinar, risulta improponibile per le casse comunali l'accollarsi  di un deficit così oneroso così come il riscatto di animali di cui non si sa più cosa fare.....

10 Dicembre 1985
Si riunisce la commissione che deciderà la sua sorte Ultimi giorni per lo zoo
Entro fine mese scade la convenzione tra il Comune e la ditta che lo gestisce - Tre ipotesi: ristrutturazione dell'impianto (la meno probabile), trasferimento o totale abolizione - Molti auspicano un territorio ampio e senza gabbie, che ospiti solo animali di queste latitudini Ore contate per lo zoo? Ne discuterà giovedì la Commissione consiliare costituita nell'ottobre scorso dalla Giunta municipale con l'obiettivo di giungere rapidamente ad una decisione. La convenzione fra i1 Comune e la ditta Molinar, che da trent’anni  gestisce i1 Giardino zoologico, scade infatti i1 31 dicembre mentre l'impianto, che conta ogni anno circa 320.000 visitatori, è in cattive condizioni e necessita di interventi radicali. Si è dunque alla vigilia di scelte Importanti, con tre soluzioni possibili: rinnovo della convenzione (che dovrà prevedere vasti lavori di ristrutturazione), trasferimento dell'impianto in altra sede oppure abolizione dello zoo. L'ipotesi del rinnovo è, al momento, la meno probabile. Quasi tutte le forze politiche sono d'accordo che l'area del parco Mlchelotti venga destinata ad altro uso. Il plano regolatore prevede che debba diventare un parco pubblico. Ampio credito trova invece, l'ipotesi del trasferimento, ma non mancano vigorose pressioni per la chiusura totale. Sarebbe un atto di civiltà — spiega l'assessore al verde Marziano Marzano — un modo per scrollarsi di dosso retaggi che risalgono all'impero romano, rinvigoriti dopo il colonialismo, ma ora fuori dei tempi. Lo zoo, come è concepito attualmente, non va bene. Violenze ai danni degli animali sono incontestabili. Basti pensare a predatori e predati costretti a vivere a contatto di vista e di odori. I bambini avrebbero poco da perdere: lo zoo offre loro un'immagine distorta della realtà. Non va tenuto aperto solo per il fatto che si vendono molti biglietti. C'è già una precisa idea sul riutilizzo dell'area: -Potrebbe, nascere un parco naturalistico con le strutture murarie già esistenti usate per ospitare piante rare ed un cinematografo, inserito nel normale contesto della programmazione ma specializzato nella programmazione di pellicole a tema ecologico-. L'ingegner Luigi Momo, presidente del quartiere Borgo Po, ribadisce la volontà di trovare un'alternativa all'attuale soluzione. Lo zoo non può essere mantenuto nella sua attuale collocazione. Sull'utilizzo dell'area si pronuncerà il Consiglio di Circoscrizione: un parco, magari con qualche struttura sportiva, sembra però la soluzione migliore. Primo ad aver richiesto fermamente l'abolizione dello zoo fu, oltre due anni fa, i1 consigliere de Sergio Galotti: E' una struttura anacronistica — ribadisce ora — che costringe gli animali a vivere in situazioni allucinanti e costituisce uno spettacolo diseducativo ed incivile per le giovani generazioni-. Per il prof. Giusto Benedetti, direttore scientifico dello zoo, -che la convenzione venga o meno rinnovata è relativo: in caso negativo sarà la città di Torino a farsi carico dell'impianto. Una chiusura è comunque improponibile, piuttosto può essere sensato un trasferimento. Il giardino zoologico adesso è allo stretto: tre ettari sono pochi, l'ideale sarebbero una quarantina. Potremmo cosi creare recinti più ampi e zone per l'allevamento-. Dove potrebbe nascere un nuovo zoo? -Si è parlato di Stupinigi, della Mandria e delle Voliere. Le soluzioni più praticabili sono forse le prime due, ma è un problema che andrà analizzato nei dettagli-. Oggetto di studio dovrà essere anche la gestione economica dell'Impianto se è vero, come sostiene il dottor Sodaro, responsabile amministrativo della Molinar, -che l'anno scorso il giardino zoologico ha chiuso con un rosso di quasi trenta milioni-.

E poi l’epilogo:

22 marzo 1987 Rimangono 6 giorni alla chiusura dello zoo che era stato aperto 31 aa fa (1956): dice il direttore: 'Ricordo quando, il 20 ottobre 1955, i giornali con orgoglio lo chiamavano La città zoologica e lodavano il progetto avveniristico dell’ing. Gabriele Manfredi….