lunedì 7 novembre 2011

Andrea Giovene



L'autore ha avuto più valutazioni critiche nel mondo anglosassone che da noi dove rimane un autore marginale e praticamente sconosciuto. Ricorrente è la considerazione che Giovene sia stato in qualche misura sopravvaluto quando accostato a Proust o Tommasi di Lampedusa. Le sue pagine, pur unanimemente riconosciute magistrali nella descrizione di paesaggi e figure, soffrono talvolta di un eccesso di lirismo e di palpito poetico. Altri hanno giustamente rilevato che il suo scrivere richiama un po' troppo l'erronea idea che la civiltà europea, a contatto con cumuli di vecchie pietre, abbia formato spiriti di eccelsa finezza mentre le lande selvagge del Nord America non abbiano prodotto che anime primitive. Andrea Giovene d'altra parte se non riesce a realizzarsi come scrittore perfettamente incastonato nel cuore e nel mito del suo tempo, trova però il modo, nelle sue migliori pagine, di rappresentare una vera e propria contro-cultura negli anni in cui scrive L'autobiografia di Giuliano di Sansevero. 

Post scriptum Finito. Ho portato a termine la lettura della impegnativa "autobiografia" con qualche rimpianto. Da una parte c'è la lieve malinconia ad abbandonare una storia che ci ha interessato e coinvolto, dall'altra il rimpianto si tinge più propriamente della sfumatura di un'occasione mancata. Poteva essere un capolavoro e invece rimane l'impressione di un qualcosa di incompiuto, algido e distaccato, mai abbastanza al centro delle nostre emozioni e del nostro partecipato  coinvolgimento. Ci sono nelle pagine di Giovene espressioni memorabili, veri guizzi di stile (a volte, è vero, un poco narcisisticamnete antiquati) che sul momento rapiscono e fanno sognare. Ma lentamente con la ripresa della storia tutto si perde in un diluito e poco ordinato vagare della mente narrante. Peccato perchè la materia iniziale era davvero notevole: l'aristocrazia napoletana di una vecchia famiglia, lo sviluppo umano del protagonista attraverso le vicende (in verità molto lontane ed ovattate) della storia italiana nel ventennio. Ma anche qui l'io narrante non riesce mai ad aprire un flio diretto convincente con il lettore. troppo riservato pudore forse, troppo sibillino nascondersi dietro la parola. O forse ahimè una più probabile mancanza di forza artistica. Il terzo volume si conclude in un bisbiglio narrativo che non ha la capacità di concludere una qualsivoglia parabola esistenziale. Il libro è comunque consigliato per chi abbia la ragionevole costanza di gustare una prova letteraria ambiziosa anche se perdente

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